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Il costume da torero

da A casa tutto bene, Picicca Dischi/Sony Music, 2017

Nel 2017 si compie la traslazione ufficiale di Brunori sas da reuccio della scena indipendente a incarnazione del nuovo Cantautore, punto di congiunzione perfetto tra gli orfani della canzone d’autore tradizionale e la famelica generazione indie pop. La promozione passa dai canali d’ordinanza: la partecipazione al Primo Maggio, il Premio Tenco, la televisione, i sold out, persino la presenza fissa, per circa un anno, nelle classifiche di vendita e di streaming.

Daio Brunori, autonomo purosangue, un po’ incassa e un po’ smitizza, stando attendo a riderci su, a ironizzare sempre. Ma A casa tutto bene puntava chiaramente a questo: trasferire nella forma-canzone il dubbio del disilluso sul punto di perdere l’ultimo barlume di speranza, tenergli accesa la fiammella e insieme massacrarlo per le sue contraddizioni evidenti, per le sue responsabilità.

Sempre in delicata tensione tra personale e collettivo, la riflessione di A casa tutto bene è parsa perfetta per dare carne e parole al momento di frattura del fu-elettorato-di-sinistra; allo stesso tempo, a conti fatti, si è rivelata più inclusiva del previsto, superando la soglia del recinto politico. Se ciò è accaduto, è perché il rifiuto della resa e dello sfascio come ultime opzioni possibili, che permeano l’intero lavoro di Brunori, sono sentimenti che interpretano oggi uno sforzo civilista ben oltre le identità politiche.

Perciò più di La verità o Secondo me, epitome della scissione interiore del fantasma dell’elettore dem, più del rutilante aggiornamento del confronto tra Sud e Nord di Lamezia Milano, talmente lieve nella sua ironia da raggiungere anche l’etere radiofonico mainstream o L’uomo nero, raggelante e anticipatorio, è Il costume da torero la più affidabile sintesi delle motivazioni che hanno portato Brunori a occupare questo posto.

Sicuramente per ragioni squisitamente musicali. Leggera e saltellante, stringata e immediata, Il costume da torero è immediata come un motivetto a cui non si è voluto pensare troppo a lungo, senza introduzioni o finali ma articolata attorno a un’unica strofa presentata in due varianti, una per ‘cantautore solo’ e l’altra per voce maschile più coro scolastico di under 12. Più che nel solco di De Gregori, Dalla e Gaetano, cioè i numi che vengono richiamati più spesso parlando di Brunori, Il costume da torero deve moltissimo alla canzone d’autore para-infantile sperimentata dal sommo Sergio Endrigo di Ci vuole un fiore e più in generale al Bruno Lauzi degli anni Settanta, anche se musicalmente è equidistante da Toquinho come da Ma la notte no.

La dimensione infantile ha un valore simbolico evidente: per salvare “il mondo intero” Brunori non si rivolge agli sforzi di piazza o alle azioni organizzate (tutto A casa tutto bene, in fondo, resta in una posizione individualista, perché è l’unica possibile della sua generazione), ma invoca l’irriverenza del gioco e del travestimento, affidandosi proprio al colore vivace e pastello della costruzione musicale. Come fa Caparezza con Ti fa stare bene, canzone praticamente contemporanea, alla voce infantile è affidato uno scarto di realismo lucido che in bocca a un adulto non suonerebbe altrettanto veritiero: sono i bambini a illustrare lo stato esistenziale di chi ha le ossa rotte ma ancora non è stato roso completamente dal livore e dal senso di disfatta.

In un Paese in cui le forze politiche hanno progressivamente virato la propria comunicazione verso il senso di rigetto (la ‘pancia’), quasi sgomitando per occupare lo spazio ancora disponibile in questo mare retorico, nutrire ancora un briciolo di fiducia diventa un atto quasi rivoluzionario, persino rischioso perché espone al pubblico ludibrio (la contro-retorica ‘anti-buonismo’). In questo senso Brunori non mente, non edulcora, chiama le cose come sono, addirittura sporcandosi di trivialità: “La realtà è una merda ma non finisce qua”. Ma allo stesso tempo invoca, e questo è ciò che ha fatto la differenza, un realismo votato tanto al buon senso quanto al respingimento del cinismo come approccio globale.

“Non sarò mai abbastanza cinico
Da smettere di credere
Che il mondo possa essere
Migliore di com’è
Ma non sarò neanche tanto stupido
Da credere
Che il mondo possa crescere
Se non parto da me”

Vista in prospettiva, questo doppio rifiuto appare come la difesa verso un presagio inquietante: una sintesi strabiliante tra la necessità di andare oltre una parte politica che ha smarrito il contatto con la concretezza del quotidiano e l’urgenza di rifiutarsi come ‘incattiviti’, secondo la tendenza del momento. Dunque mettersi il costume da torero diventa il gesto eroico per salvare il mondo intero con un pugno di poesie: Brunori ha fornito il dress code perfetto per questa parte di Paese non stupida ma nemmeno cinica, che proprio non vuole accettare di abdicare del tutto al sogno.

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