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Questione di sigarette

Promiscuità di Thegiornalisti, da Fuoricampo, 2014

thegiornalisti copertina promiscuità

Riascoltati con la cognizione di quel che la band è diventata, Thegiornalisti vol. 1 (2011) e ancora di più Vecchio (2012) emanano una sensazione di disagio e inadeguatezza. È come se, cimentandosi grossolanamente con il vocabolario dell’indie italiano – per quel che indie italiano poteva significare in quel momento, sicuramente prima che le social communities ne rivoluzionassero il senso, e prima di Drive avessero in realtà inconsapevolmente scoperto e reso pubblicamente evidente il grande bisogno che la scena alternativa italiana non intercettava, con i suoi strumenti: una canzone pop che portasse con sé l’attenzione ai versi e l’efficacia compositiva non artefatta delle hit costruite in laboratorio; una ‘pop song alla maniera del cantautore’, che fosse personale senza però dover passare dalle maglie dell’intimismo (alla Dente, per esempio come questa), né in alternativa costringesse allo sguardo sociale, finanche nelle sue espressioni più ironiche (alla Daniele Silvestri). Un’istanza che in quei primi due album serpeggia e si manifesta improvvisa come fuori contesto, desiderosa di esprimersi ma ancora insolubile: l’olio nell’acqua.

A investire energie in questa ricerca, in Italia, c’era sicuramente da tempo già Cesare Cremonini: canzoni come “Padre/Madre” o “Le sei e ventisei” traducono perfettamente questa inclinazione. Ma Cremonini, solo secondariamente ammesso tra i tutori dell’itpop, nel pop più commerciale vi era nato, e semmai il suo sforzo era di rendere evidenti le influenze di uno stile ‘da cantautore’ nelle sue formidabili architetture melodiche. Thegiornalisti, al contrario, si volevano scuotere di dosso i vestiti (scomodi e forse anche detestati) dell’iper nicchia e del linguaggio laterale dell’hipsterismo tricolore, per come lo si poteva intendere nei primi anni Dieci (come interpretare, altrimenti, un titolo come “La tua pelle è una bottiglia che parla e se non parla vado fuori di me”?). Tommaso Paradiso bravama uno zenit (che è il pop-pop) scegliendosi il cono ottico sbagliato (il sixties pop e il brit-pop).

È una storia che poteva chiudersi lì, e invece ha avuto l’ardore di rigenerarsi completamente, e sorprendentemente. Perché Fuoricampo, il terzo album, dimostra che Thegiornalisti hanno compreso realmente dimensioni e contorni di quello spazio mancante, e vi sono adeguati in modo brillante, talmente efficace da trasformarsi in regola.

“Promiscuità” contiene più di ogni altra canzone in Fuoricampo il segreto di questa formula improvvisamente efficace. Volendo rimanere comunque nelle modalità espressive del cantautorato, per le ragioni espresse poco fa, ma puntando a una platea serenamente trasversale, non traviata da ideologismi o ermetismi niche, Tommaso Paradiso ha spostato il cono ottico sul momento storico in cui i cantautori divennero popstar da stadio.

E quindi, anche grazie al determinante contributo di Matteo Cantaluppi in cabina di regia,  “Promiscuità” e tutto Fuoricampo riescono ad abbracciare l’arco ideale tra fine degli anni Settanta e inizio degli Ottanta in cui i cantautori ‘scoprono’ (o abbracciano) la massima popolarità, convertendo ermetismi e inclinazioni intellettualistiche in qualcosa di molto più trasversale e alla portata di tutti. Si va da Dalla (1980) di Lucio Dalla a Cuore di Antonello Venditti (1984), ossia il cantautore romano fotografato nel suo momento più disprezzato da chi conservava una visione della canzone d’autore integralista e necessariamente politicizzata, e però anche uno dei momenti di picco della sua fama, di allargamento delle vedute, universalità del linguaggio. Tutti obiettivi dell’ambizioso Paradiso, che traduce la lezione: via la componente introversa e intimista, a favore di un abbraccio pieno a un sentimentalismo vitalista e irrimediabilmente a trazione positiva, completamente immerso nei punti cardinali estetici di quegli anni, corredato da una pizzico di sfrontatezza simil-yuppie che sacrifica la grettezza materialista e la compensa con una tendenza all’introversione e all’individualismo, di evidente stampo nerd. Un ritratto brillante di quello che una generazione aspira ad essere, almeno pubblicamente (nel privato, in realtà, è più spesso un trionfo di fobie incancrenite e post-moralismi d’accatto, tali da rendere quasi inverosimili, in termini di realismo, una sequenza di felice e consapevole sesso di gruppo come quella descritta).

Immagine esemplare ne è l’orgia cristallizzata da “Promiscuità”: un quadro vivente in cui i protagonisti sembrano muoversi a un ralenti estremo, come per dilatare volutamente lo squarcio di vitalità ed energia che questo consesso di corpi ha spontaneamente generato. Non c’è squallore o intrigo o divergenza alcuna: la musica, con il suo giro armonico quadrato e i sintetizzatori radiosi, dà un tono leggiadro e solare al tutto, come a voler semplicemente porre in luce la genuina ‘bellezza’ di tanta promiscuità, confermata dalle “facce distese”. Piuttosto emerge forte la presenza di una sensualità solidale, che rende la scena più ‘un fatto tra amici’ che un postribolo, una Patty Pravo con il ritegno di Max Pezzali: “Ci parliamo sul collo vicino all’ orecchio / siamo dieci ma il gusto ci sembra lo stesso”, nel rispetto del vincolo sacro della non fusione tra sesso e amore: “Niente legami ma solo affetto questione di letto”, ribaltamento ironico di “non c’è sesso senza amore”, il vendittiano anni Ottanta più archetipico che c’è.

Naturalmente è una serata tra amici che è degenerata; si parla di “espressione molesta”, “sette” del mattino, sigarette dietro sigarette, costruendo un immaginario dell’after che nutrirà costantemente la popsong alla Paradiso, anzi giocando a confondere la finzione con la realtà, con i selfie tracimanti nomadismo notturno, i post iper-romantici pubblicati alle 4 del mattina, il rifugio alcolico esibito (“vorrei morire brillo”, da “Sold Out”).

Per raccontarla, in ogni caso, Paradiso si affida al potere evocativo di piccoli dettagli ben scelti: frammenti del set (“intorno a una sedia, a un divano rosso”), sensazioni tattili (“le tette sudate, le mani sul culo”), umori, odori, tensioni (“gli sguardi che crepano persino il muro”). Come deve essere nel rispetto dei codici dell’erotismo, si mostra togliendo: basta un verso come “da un bicchiere di vetro a un bacio nel cesso” a descrivere un arco, una sorta di substoria sensuale all’interno della super-sequenza. E a proposito di “cesso” e “culo”, è evidente anche in questo che la modalità dalliana, lo sprezzo della moralità camuffato da gusto della provocazione che il cantautore bolognese traduceva seminando le canzoni di compiaciuti simboli dello sfacelo, checche che fanno il tifo e “grandi figli di puttana” (in fondo tutto Fuoricampo sembra reincarnare l’idea musicale che gli  Stadio proponevano ai tempi di Borotalco, sotto l’egida di Dalla, e forse oltre la musica anche il modello romantico).

Non c’è un preludio né un finale: la canzone è qui, in questa natura viva di gaudente piacere, con la voce di Paradiso impegnata in un gioco imitativo sopraffino tra Gaetano Curreri e Adriano Pappalardo che ha aperto le gabbie del citazionismo nei confronti di un periodo del pop che si riteneva inimitabile (nel caso di Dalla) o non meritevole di essere imitato (in quello di Venditti). Se c’è un Olimpo per le canzoni ispiratrici della trasmutazione dell’indie pop in itpop, “Promiscuità” ha di sicuro un posto in prima fila, per la sua idea di lascivia libera, trasandata, leggera e persino orgogliosamente scazzata, come in un selfie dei primi anni Dieci, ancora immune dalla sua strutturale inverosimiglianza. ‘Musica pe’ scopà’, in senso letterale, prima che nell’indie pop per le masse (orgasmi calcuttiani a parte) di scopare si smetta. Per sempre.

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