Tutto è talmente nitido che sembra ieri
Infinito di Raf, da Iperbole, 2001

Raf ha incarnato il ruolo quasi miracoloso dell’autore pop capace di confezionare la salmodia estiva perfetta senza sacrificare stile, sobrietà, persino ricercatezza. Oggi che di hit ne bastano un paio per permettere l’attribuizione di ogni sorta di epiteto, come ’autore da milioni di visualizzazioni’ o l’immancabile ‘Re Mida dell’estate’, fa impressione la naturalezza e la costanza con cui Raffaele Riefoli ha messo sul piatto della bella stagione successi ogni due anni, uno sì e uno no. Una personale rappresentazione del pop prodotta senza alcuno sgomitare né sacrificarsi alle mode passeggere, limitandosi a integrare con intelligenza le tendenze più recenti, nei limiti della loro adattabilità al suo mondo espressivo. Sempre facendo affidamento primariamente a una eccezionale ispirazione morbida, costante e in qualche modo bonariamente ripetitiva, come il rovescio di repertorio di un tennista paludato, sempre implacabile anche se dopo un po’ non più inatteso.
Così è stato per oltre 15 anni, cioè almeno fino a quando a metà degli anni Novanta Raf ha sentito il bisogno di rimettere in forte discussione la percezione del suo universo musicale. Nel 1998 esce La prova, album a matrice rock e ambizione cantautorale, talmente di rottura nelle intenzioni e parzialmente anche negli effetti da includere persino un’elegia al Che (“Jamas”, non memorabile). La prova sarà un fallimento commerciale clamoroso, pervenuto proprio subito dopo un momento di grande seguito commerciale. Ma l’album sarà anche un atto fortemente simbolico di riaffermazione del sé, una prova di libertà creativa ricercata in coscienza dei suoi costi, un grande salto, per citare il brano pubblicato solo un paio di anni prima nella raccolta Collezione temporanea, a conti fatti premonitore. Senza questo schiantarsi consapevole, Raf non avrebbe potuto vivere, nel decennio successivo, la sua fase più matura sul piano creativo.
Che prende il via proprio dalla hit estiva perfetta, una delle pochissime in grado – nei decenni – di farsi desiderare a livello mnemonico, di ambire a un’escalation – emotiva, tecnica, stilistica – e raccogliere dal pubblico, invece che una sostanziale indifferenza, un’adesione totale.
“Infinito”, trascritta su un foglio di carta, è a metà tra una lettera e una pagina di diario. L’organizzazione del pensiero è quasi confusa, tra domande senza risposta, puntini di sospensione usati in modo generoso e discorsi diretti che entrano all’interno del flashback.
Ma quel giorno che mai mi scorderò
mi hai detto: non so più se ti amo o no … domani partirò
sarà più facile dimenticare… dimenticare…
… e adesso che farai? Risposi: io… non so
Passato prossimo e remoto convivono nello stesso periodo, come a sottolineare le diverse interpretazioni emotive dell’accadimento, con uno dei due a vedere l’evento più lontano dell’altro.
La strofa de “Il battito animale” si sviluppava su un meccanismo simile, anch’essa era in prima persona (“Credo che ho perso la testa / o soltanto perso di vista le cose più vere”) e anch’essa si affidava a una metrica debitrice del rap. Se nel “Battito” tuttavia questa scelta sembrava più motivata da valutazioni musicali, con il desiderio di misurarsi con una tendenza globale che stava cominciando a influenzare anche il gusto tricolo, in “Infinito” l’uso di una traccia rap appare persino fuori tempo.
La ragione più profonda sempre la necessità di esaltare la dimensione interiore del discorso, rendere esplicito il momento e il contesto, i “flash ripetuti”, gli “attimi vissuti con te”. Quasi mettere una sottolineatura perché, agli occhi di lei che leggerà queste parole, o certamente le ascolterà, questa arrivi come scrittura emotiva, di pancia, che come tale non può avere la struttura metrica del verso cantato classico, ma deve incespicare, rincorrere i pensieri, essere aperta a interruzioni.
Più che un rap, è una melodia rappata, peraltro, nel senso che Raf cadenza il flow su una nota vera e propria e non un semplice parlato privo di intonazione, come pretenderebbe il rap (e come era quello di “Il battito animale”). Considerato il contesto temporale, la scelta di Raf sembra stare nel mezzo tra il parlato confidenziale dei brani più intimi di Jovanotti e l’argomentazione spericolata di un Daniele Silvestri (vedi “Le cose in comune”).
Ricordata spesso per la progressione melodica, “Infinito” è una canzone in realtà essenzialmente ritmica. Trovato un punto ideale di espressione tra rap, parlato e cantato intimista, Raf non si accontenta di ripeterlo più volte ma dispone gli elementi con originalità, perché differiscano l’uno dall’altro. forte anche di un giro armonico semplicissimo eppure di grande duttilità.
Non sarà così, ma viene quasi da immaginarsi l’elegante Raf che arriva in studio con il testo e una base e inizia a svolazzarci sopra, cercando nella voce i passaggi emotivi più delicati: da quel “teso” che apre la seconda parte, profondissimo e staccato all’accelerazione cantilenante dei “quattro anni scivolati in fretta”, racconto di una fase di cui si conosce già il finale.
La diversità dell’espressione è funzionale a sottolineare l’aspetto narrativo del brano, che guarda al passato ripercorrendo i passaggi principali della chiusura di una storia e che, proprio per questo, non può che imitare l’imprevedibile curvatura dell’amore, dall’intensità massima alla nostalgia più straziante.
“Infinito” è, a conti fatti, una canzone sulla difficoltà di comunicare nel momento in cui una storia finisce. Alla base c’è il momento in cui lei annuncia a lui che deve partire, per ragioni non chiare, adducendo quella che potrebbe essere una scusa di circostanza (“mi hai detto: non so più se ti amo o no”). Lui, forse per una forma di orgoglio, o per banale ingenuità, certamente per un’introversione che non rende facile la comunicazione (“avrei voluto leggere i tuoi pensieri”), sbaglia a leggere il suo messaggio:
Quel tuo sguardo poi lo interpretai come un addio,
senza chiedere perché, da te mi allontanai
ma ignoravo che in fondo non sarebbe mai finita.
L’“ironia del destino” è che, dopo molti anni, lui è ancora lì, intento a pensare a lei. E quando ha l’opportunità di un nuovo incontro cerca di celare, consapevolmente, “i segni di ogni cicatrice”, un tentativo maldestro di dissimulare “quanto c’ero stato male”. Questa goffaggine del maschio, una sorta di difesa di un’immagine integra della virilità, si disvela proprio nella parte enfatica del cantato: l’ansia del rappato, l’accelerazione delle frasi, l’aumento dei puntini di sospensione.
Il ‘breve incontro’ sembra brevissimo, anche se dura “ore a parlare”. Ancora, ad animare le reazioni c’è una distonia comunicativa: per giustificare la sua fuga lei ricorre a una non-spiegazione, la peggiore in questo caso: “mi hai detto: so che è un controsenso ma / l’amore non è razionalità… / non lo si può capire…”.
Naturalmente il nuovo incontro è anche una nuova esplosione dei sensi. I due si riservano il tempo per fare l’amore, e siccome l’amplesso accade “prima di partire” sarà chiaramente “come morire”, per rispettare il cliché. Lei gli lascia un ricordo indelebile; lui, cosciente dell’errore del passato, si rende conto che non potrà “mai dimenticare, dimenticare”.
Per questo rimpallo tra passato e presente (e futuro negato) Raf sembra danzare di grande finezza dentro il canone del ‘brief encounter’, del filone narrativo degli amanti lontani che si ritrovano per scoprire che tutto poteva essere, tutto non è stato, e qualcosa c’è ancora.
Un po’ come accade nella trilogia di Richard Linklater composta dai tre film Prima dell’alba (1995), Prima del tramonto (2004) e Before Midnight (2013), tutti e tre con protagonisti Ethan Hawke e Julie Delpy che si incontrano altrettante volte lungo il corso di molti anni. Nei film i due – sconosciuti, fidanzati mancati o amanti incompleti – camminano, parlano, si dichiarano e ritrattano, fanno l’amore e si lasciano, senza mai lasciarsi. Il meccanismo nei confronti dello spettatore è nel titillare quel filo sottile che attraversa il tempo, nelle rughe che fanno capolino sui volti senza scalfirne il fascino, nel ritrovarsi riprovando emozioni che solo questa tipologia specifica di amore impossibile riesce a risvegliare. E’ la grandezza di un autore tra i più sottovalutati del cinema contemporaneo, abile a deformare il tempo del cinema avvicinandolo il più possibile a quello della realtà , giocando con l’illusione di verità e con la meraviglia di chi assiste al flusso della vita che si compie (illuminante, in questo senso, è il notevole Boyhood).
Al pari di come accade nei film di Linklater, anche gli amanti di “Infinito” decidono consapevolmente di vivere il momento nella piena consapevolezza della sua impossibilità a tradursi in futuro. A questo punto, presa coscienza che anche questo nuovo incontro finirà allo stesso modo, e cioè con una nuova distanza, la canzone spicca il volo il tanto atteso. E qui viene il bello, il punto in cui la canzone abbandona i fatti e decolla: che cos’è davvero l’infinito, sembra domandare a questo punto Raf?
Non è, come potrebbe sembrare, questo momento indimenticabile, che in realtà ha più i tratti di una tortura autoimposta. La parola infinito qui sembra più definire il mito che a lei serve per sfuggire a una possibilità di relazione, una “irraggiungibile fine o meta” (ì-rraggiungì-bì-lé, scandita bene, con gli accenti spostati, come fosse un concetto deforme, stonato, implausibile) che rincorrerà tutta la sua vita.
Perché lei, probabilmente, è incapace di legarsi, e non lo vuole spiegare (la questione della “razionalità”). E lui, di contro, aveva avuto un chance ma non l’ha capitalizzata e si morde le mani oggi, forse perché impaurito di vivere un sentimento assoluto, appunto: infinito.
E allora, invece che ripetersi sulla sua traccia melodica, il ritornello si impenna: come se Raf si rendesse conto che l’unica modalità possibile perché questa storia esista sia questa, ovunque tu sarai, ovunque io sarò, sempre “se questo è amore”. Perché comunque, il dubbio resterà sempre.
Rincorse, occasioni perse, equilibrismi, fughe, dichiarazioni tardive: un campionario perfetto per raccontare un sentimento di ingresso al Duemila, con i confini europei abbattuti, la società liquida che ci abitua subito alla dislocazione spaziale, al viaggio settimanale, alla precarietà consapevole in alternativa alla fissità emotiva delle generazioni precedenti.
E’ il tempo in cui tentiamo di fingerci materialisti, perfettamente in grado di resistere alle lusinghe del sentimentalismo, ma in realtà il romanticismo più viscerale è radicato dentro di noi. “Infinito” la leggo così, soprattutto in termini musicali: un progressivo prendere coscienza che il sentimento, in un’ideale da canzone pop, va dichiarato, e non ha senso fare strategie, perché potresti pagarne l’occasione persa, il treno mancato.
Cosa c’è di più fascinoso di un uomo integro che mostra la sua vulnerabilità, sprofondando in una dichiarazione eroica, ma comunque elegante, se non ‘maschio’? Che cos’altro è, se non questo, la canzone di Raf, tutta?
A rendere “Infinito” un picco creativo nelle canzoni d’amore del post Duemila concorre anche un video musicale molto evocativo. Alle prime ore del mattino, Raf cammina spedito sul modernissimo Ponte Vasco da Gama, il più lungo d’Europa, completato solo due anni prima che la canzone fosse pubblicata. Un ponte, appunto, perché “Infinito” è anche la storia di un contatto appeso a un filo sottile, ma non spezzato. Volendo, anche un richiamo visivo a questa dimensione ‘globale’ della storia, alla sua mobilità europea tutta Duemila, Europa Unita, Euro (e Linklater, che nel 2001 ha fatto solo il primo capitolo della trilogia, è premonitore: nella trilogia lui è americano, lei è francese, e il primo incontro è a Vienna).
Nel video a volte Raf insegue la camera, a volte sembra un solitario che pensa ad alta voce, quasi intimidito nel mostrarsi. Elegante ma con disinvoltura: è questa l’immagine che sceglie di avere da qui in avanti. Una sottrazione calcolata ma naturale di ogni fronzolo, per lasciare che la musica, con la sua forza armonica, e il canto, con la sua eccezionale intimità, emergano indisturbati.
Raf ha trovato se stesso essendo se stesso, a quasi un ventennio di distanza da “Self Control”. La malinconia nei versi di impostazione cantautorale di “Cosa resterà degli anni 80” impallidisce di fronte a questo posizionarsi fiero nel mezzo del suo tempo. Il Raf di “infinito” è bello, affascinante, cool, ma non fa nulla per sottolinearlo, o almeno lo fa in un esercizio di sobrietà da cui prendere esempio.
E davvero c’è chi prenderà esempio. Non che Raf abbia inventato nulla, sia chiaro: ma tra i baglioniani “Mille giorni di te e di me” e quell’altro innodico tributo al potenziale drammatico della melodia amorosa che è “Il regalo più grande” di Tiziano Ferro passano vent’anni, e in mezzo, più o meno equidistante da entrambe, c’è proprio l'”Infinito”. Chi lo desidera, provi a tracciare le connessioni. Non sarà così disagevole.
Uscita a ridosso dell’estate, “Infinito” rigenera commercialmente Raf, autore 41enne attivo dal 1983, che torna in alto nelle classifiche, tra i soliti Zucchero, Ramazzotti, Rossi, Celentano. Riempie gradualmente le radio in poche settimane, viene candidata da molti a contro-inno dell’estate, per chi cerca un po’ più di sostanza (è l’anno delle “Tre parole” sole cuore e amore, e rispetto alla piattezza del jingle, la canzone di Raf sembra stare lì a dire, con la sua stessa esistenza, che cosa può fare il pop quando viene concepito già tridimensionalmente). Le coppie, ancora insieme o divise, spenderanno molti mesi a strillarsi addosso le impossibili note finali, gli ovunque io saròòòòò e i non smetteremo maaaaai, facendo il verso a Raf proprio in un impeto di onnipotenza melodica: una tenerezza, fortunatamente, ancora infinita.
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