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E sogno il cash

La danza della pioggia di Marracash, da Marracash, 2008

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Portato biologicamente per il flusso di coscienza, la suggestione interiore, la frammentazione e l’accumulo, il rap in Italia si confronta più raramente con la canzone ‘a soggetto’, intendendo con essa una forma inquadrata nel contesto di un racconto più convenzionale. Naturalmente ciò non vuol dire che tracce narrative non ve ne siano. Anzi: quando il rap sceglie di adottare le convenzioni di un racconto lineare, innesca spesso meccanismi di singolarità, come se queste canzoni avessero una luce speciale puntata addosso. Valgano come esempio, lungo quasi vent’anni: Fabri Fibra che fin da Mr. Simpatia costella i suoi lavori di surreali excursus a carattere narrativo, o l’episodio ‘differente’ di un album come Gentlemen di Guè Pequeno, così votato alla modernità del linguaggio, in grado di cimentarsi con un classicismo persino romanzato in “La malaeducazione”, con Enzo Avitabile.

E poi c’è Marracash. Nel suo esordio omonimo del 2008, omaggiato e ripubblicato nel 2018 con inediti e rarità, il fenomeno della Barona semina lo scompiglio in una scena rap in quel momento disponibile all’emersione di nuove voci e ancora non commercialmente troppo rilevante. Lo fa sintetizzando la semantica hip hop della vita da strada e quella del riscatto che passa dall’autoaffermazione, attraverso un linguaggio che abbaglia per profondità, guizzi creativi, continuità del tocco, eleganza dello sfoggio di bravura, credibilità.

Nel cuore di un album che distilla con sapienza gli ingredienti di un fiero conscious rap tricolore, assolutamente consapevole dei suoi mezzi, Marracash insedia “La danza della pioggia”, la sua traccia narrativa per antonomasia.

E poiché il linguaggio a base narrativa più citato e ripreso dal linguaggio rap è quello del cinema, Marracash confeziona “La danza della pioggia” come un film in tre parti, impostando la barra temporale lungo una progressione che segue altrettante fasi del racconto di autoaffermazione dai bassifondi di un lavoro mal sopportato fino al successo nazionale. Ad accomunare i tre atti, come vedremo, è l’ombra.

Ciascuna delle tre barre cristallizza una serie di azioni, chiuse all’interno di un preciso spazio temporale. Come in un a day in the life, un giorno nella vita del personaggio ripreso in tre momenti distinti, dal risveglio alla mattina, con un esatta collocazione oraria: le sette e mezza, più o meno mezzogiorno, più o meno poco prima di un concerto. Il punto di arrivo, l’ultima barra, è verosimilmente il presente, dal quale Marracash rimaterializza le altre due fasi, scelte come emblematiche di un passato recente, che dovrebbe essere ormai alle spalle e che invece propaga ancora la sua onda negativa nel momento attuale.

Nella prima parte protagonista è la quotidianità di un lavoro seriale e faticoso (il magazziniere, la logistica), un ritmo monotono dal quale Marracash desidera evadere, fantasticando il successo come fuga dal mediocre, il cash come strumento per realizzare questo scarto.

Nella seconda un salto temporale ci porta al protagonista che ha scelto la più archetipica delle strade ‘semplici’ per produrre il cash e rendersi indipendenti: l’attività del pusher. Non è tutto oro quel che luccica, tuttavia, è allo stesso modo in cui l’assenza di denaro teneva in pugno il protagonista come in una forma di schiavitù interiore, così il lavoro del pusher lo fa vivere in una costante minaccia tra l’ottenere e il dovere a qualcuno. Il cash c’è, ma l’equilibrio è impossibile; se il denaro doveva servire all’autoaffermazione, questa strada illude di essere quella opportuna, ma in realtà trasporta in un’altra forma di dipendenza.

Nella terza barra l’orologio si è posizionato finalmente sul presente. Marracash ha ottenuto il successo, si muove tra Moët e groupies, si “sveglia fresco” anche se è pomeriggio inoltrato. Sul palco, finalmente, Marra “becca l’applauso”, nel pieno topos che prevede l’acclamazione del pubblico come gesto cruciale del riconoscimento pubblico del riscatto ottenuto; tuttavia, nonostante la gloria, il suo è un rimanere inquieto, carico di ansie. Un’inquietudine fisiologica.

Lascio lì il team, pago la suite

Ma poi nel buio mi imparanoio

Non ho più sonno, no non ho più un soldo

E il CD non vende come ci si attende

È un arco di inquietudine perfetto: aspirando a una forma finalmente ‘pulita’ di ottenere il cash, il protagonista compie l’esperienza della fatica e dell’interdipendenza da chi quel denaro lo amministra, sostanzialmente alienandolo dal suo controllo. Come parabola, è glaciale e definitiva: il cash è origine della schiavitù e il lavoro per ottenerlo è comunque esperienza della durezza, la delusione di un’utopia del soldo che si genera dal nulla, che piove dall’alto.

Nel rimarcare questa presa di coscienza lungo tre momenti distinti della medesima storia, Marracash attinge a una delle grandi storie della cultura hip hop, in senso globale: il rapporto con il denaro che attira e logora, consente il salto di classe e insieme trasforma la vita in una sete costante.  Solo che invece che sedimentarlo in flusso libero, in “La danza della pioggia” questa storia è come proiettata su uno schermo. La sua articolazione in tre tempi moltiplica le possibilità di riconoscimento, mettendo insieme colui che sogna con colui che sta cercando la strada più veloce e con l’arrivato, ribadendo a tutti l’unica verità che conta: l’oscurità permane, la brama non cessa la sua influenza, ci sarà sempre un momento in cui, anche nella camera d’albergo più lussuosa, con il pubblico che acclama lì fuori, ci si sentirà incompleti, mancanti.

Si può spiegare così anche la citazione esplicita del classico di Grandmaster Flash, “The Message”: “È come una giungla, ogni tanto mi chiedo noi come tiriamo avanti”, commenta a voce bassa Marracash, nel bridge, richiamandosi esplicitamente a quel “It’s like a jungle sometimes / It makes me wonder how I keep from going under” che condensava già tutta la fatica di questo processo di affrancamento dal basso. Per l’imponenza del testo di riferimento, la citazione di “The Message” dà l’idea di quanto “La danza della pioggia” sia un pezzo centrale nella definizione di questa estetica dell’affermazione non disgiunta dall’infelicità, dal tormento dell’anelito verso qualcosa in più.

Questo pensiero nero e ossessivo Marracash lo traduce nella costruzione musicale. Il beat è scarno, percussivo, marziale ma come appesantito, il ritmo che potrebbe avere un operaio che meccanicamente va a lavorare tutti i giorni in preda a una devastante routine. Le coloriture sono poche e precise: un campanello insinuante, che pare una cassa, come in “Money”; il basso costante, monotono. Tutto sa di fatica, incombenza, peso.

Insieme a questi suoni, gli evidenti interventi di archi su una scala arabeggiante, alla “Kashmir” dei Led Zeppelin (o alla Puff Daddy che inventa “Come with me” sulla base di “Kashmir”, mescolata con una ritmicità presa in prestito da “Umbrella” di Rihanna, altra citazione esplicita). Più volte Marra in Marracash volteggia su stereotipi sonori non occidentali, come a punzecchiare la fantasia ci chi ascolta in merito a quel nome d’arte di cui si è dotato. Ma mai lo fa in modo tanto evidente come in “La danza della pioggia”, che con un pizzico di ironia fa suonare proprio come un rito voodoo. Tribali sono le voci che emergono in questa specie di ritornello con la frase “e-ia-e-ia” (omofona del “Hey Ya” degli Outkast): come un esercito di figure oscure, quasi compiacenti nell’incalzare il protagonista nel suo momento di autocoscienza, suggellato da un’autentica ‘morale’: “Zio è dura far piovere il cash”.

Non ci è dato di sapere chi sono, e questo è anche il fascino del brano: Sono conoscenti, membri della crew, che quasi se la ridono per i disperati tentativi di far piovere moneta? Sono competitor artistici, gli oggetti del monito di cui ho già detto? O è per caso Marracash – il rapper – nel pieno di quel ruolo di mentore/ammonitore nei confronti del wannabe Marracash protagonista? È per caso tutto una regressione, una visualizzazione di chi ti metteva in guardia dei rischi che avresti corso e che, in fondo, aveva ragione?

In questa lettura fuori dalla autobiografia e tutta dentro la biografia come genere, “La danza della pioggia” funge da monito e insieme da autocritica. Avvertimento verso i Marracash che verranno a non illudersi, nel rispetto di un altro asse del linguaggio: la diffidenza verso chi brama lo stesso successo. E insieme, è evoluzione del tema del monito: perché è sviluppato da una valutazione personale e privata, uno sguardo di fegato nelle tensioni che colpiscono le viscere. Decisamente coraggioso, se si osserva il modo scabro in cui Marracash vi penetra (“Ma c’è sempre un guaio, sto nello schifo”).  Così “La danza della pioggia” diventa anche autocritica: del personaggio Marra della canzone al Marra che l’ha composta e la canta, un bilancio quasi crudele delle conseguenze del successo, una condanna persino con sberleffo a restare ossessionati a vita da una sorta di ritmo ancestrale, profondo e incessante, proprio adesso che il successo è arrivato, il primo album è stato pubblicato, la strada è tutta in discesa.

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