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Mia madre ha fatto un sogno

Catene di The Zen Circus, da Il fuoco in una stanza, 2018

The Zen Circus copertina di Il fuoco in una stanza

Ci si imbatte spesso nelle madri passando in rassegna la discografia di The Zen Circus. Si può parlare di loro come di un nucleo ricorrente, al pari di altri temi: l’inabilità d’amare, il nichilismo come sottoprodotto esistenziale, il disprezzo per il retorico, la religione come menzogna da aggredire (anche) con la blasfemia, l’espressione musicale come missione, la razzia della speranza presso una generazione che non ha consumato la sua gioventù. Tutti immaginari che nei cinque album esclusivamente in italiano pubblicati dalla band, nonché nelle due opere soliste di Appino, si intrecciano e si ripetono, diventando alternativamente centrali.

Il fuoco in una stanza è l’album in cui la focale si restringe sui legacci che influenzano gli individui fino a impedirne il moto verso l’autodeterminazione, certe volte così connaturati all’esistere che non ci si accorge nemmeno della loro esistenza. Sono vincoli i luoghi, gli status sociali, le dipendenze. Il vincolo più gelatinoso e irremovibile resta però, naturalmente, quello familiare: dove la madre è vettore di un conflitto in almeno una decina di canzoni di The Zen Circus, in Il fuoco in una stanza è una protagonista ricorrente, in chiave autobiografica come nel racconto in parte terza (“C’è tua madre dentro ad ogni boccone / La lingua batte sempre dove il dente duole”, nell’incipit doloroso della title track).

Eppure in questo album la madre è centrale nella misura in cui i versi tradiscono un desiderio di fare i conti con il suo ingombro, rivoluzionare ciò che è fino ad adesso è sembrato irrimediabilmente immutabile, superare la visione circoscritta ai suoi limiti, retaggio di un’era che non si può che riconoscere come ‘passata’, e che però agisce ancora tentacolare. Persino vedervi attraverso, per rintracciare nel suo mistero quello che ancora non si conosce (“E cerco il centro fra la bocca e lo stomaco / … / Lo cerco in fondo agli occhi di mia madre / E il loro inguaribile ottimismo”, da “Questa non è una canzone”).

È “Catene” a tradurre più di ogni altro brano questo movimento duplice, da un lato di ricerca, dall’altro di allentamento della tensione. Il testo è posto nei termini di una confessione, seppur frammentata, di quelle che scaturiscono nei periodi che seguono un lutto a distanza ravvicinata e che spesso obbligano a una revisione delle proprie certezze, spesso non volontariamente. La riflessione – chiave è legata al lutto della nonna, un’altra figura di madre, e al suo effetto sul padre della voce narrante. È uno spostamento di assi: nonna e padre diventano madre e figlio, consentendo di guardare la dinamica dall’esterno. Come sempre le parole di Appino si muovono sul filo di un materialismo che potrebbe essere scambiato per cinismo, perché come sempre ad attribuir loro una gratuita negatività si rischia di fraintenderle; in “Catene”, per esempio, descrivere la ritrovata serenità del padre dopo la morte della nonna serve a portare luce su una sorta di tabù non soltanto musicale, ma culturale in senso ampio: la morte come liberazione.

Da quando è morta nonna

Sembra una cattiveria

Mio padre è rinato

Ha la faccia più serena

Forse la catena

Che li univa nel dolore

Si è spezzata fra le onde

Del loro temporale

L’immagine è d’impatto e contiene un’energia speciale, che si irradia sulla sequenza successiva: nella stanza di ospedale, il nipote che vorrebbe accompagnare il decesso della nonna con un urlo liberatorio, salvo addormentarsi “coi postumi al funerale”. È raccontata come un’occasione persa importante, nel momento in cui il legame si scioglie: per esprimersi, per ritornare all’altro quello che si è ricevuto (“D’amore non si muore, muori senza dare amore / L’ho sempre ricevuto ma non so contraccambiare”). Nel vedere la propria inabilità affettiva riflessa nell’esperienza del lutto della nonna, Appino sembra unire i puntini, tracciando un filo unico tra l’incapacità sentimentale e il conflitto familiare, fino al punto più difficile di tutti: il non amore che ritorce contro se stesso.

Odiare se stessi per le stesse ragioni

che portano i bambini ad odiare i genitori

che portano gli amanti a farsi del male

per poi dimenticarsene e ricominciare

Con un gioco di simmetrie non indifferente, gli assi possono spostarsi di nuovo e il fuoco restringersi. Adesso Appino figlio che guarda alla madre che chiede l’intervento della dimensione onirica perché essa, creando una sospensione dal reale, consenta a parole che non si riescono a dire di venire finalmente fuori. L’uomo che appare in sogno alla madre le dice di parlare; la donna scrive un verso solo, di quelli da spezzare il fiato: “anche se non ci credi ancora / tu sei stato il mio più bel regalo di Natale”. Nella costruzione musicale, naturalmente, questo verso è sempre scritto e pronunciato da Appino: pertanto la finezza è immaginare queste parole sia come reali, sia come sognate o immaginate o profondamente desiderate dallo stesso autore che le ha materializzate (anche se nella lettura autobiografica è difficile ignorare che Andrea Appino è nato il 23 dicembre).

copertina del singolo catene
Copertina del singolo "Catene"

Riprendendo il condizionale con cui si richiamava alla nonna, alla fine Appino riesce finalmente ad articolare il suo pensiero. Ed è carico di rammarico e intensità rabbiosa, tutta attribuita ai propri limiti:

Avrei voluto dirle, avrei voluto urlare

che l’ho sempre saputo, nonostante il dolore

anche quando tornava distrutta da lavorare

anche quando ci urlavamo contro tutto il male

Il modo verbale è fondamentale, perché tiene queste parole nel campo delle ipotesi, almeno nella narrazione ‘ufficiale’ del brano: quell’”avrei”, di fatto, riprende la scena della stanza di ospedale, con Appino che non riesce a dire quel che sente. Naturalmente la grandezza del gioco lirico è che Appino queste cose finalmente le sta dicendo, con tutta la drammatica carica di energia che le parole si portano dietro, e lo può fare grazie alla musica, sostanza espressiva della sua vita, canale prediletto, onnicomprensivo:

Se l’amore non so darlo, se non ne so parlare

dentro una chitarra l’ho provato a immaginare

La progressione è completa: la morte e il dolore hanno espletato la loro funzione più elevata, consentendo alla voce di rispecchiarsi, osservarsi dall’esterno, compiere quello che non è mai stato compiuto, liberarsi.

Nel video realizzato da Ground’s Oranges per la regia di Zavvo Nicolosi realtà e costruzione artistica raggiungono in climax in un finale che è tragedia e catarsi al contempo, nonché la poetica conclusione di un microfilm che in pochi minuti è in grado di passare dall’ospedaliero gelido e un po’ astratto all’onirico, mantenendo una notevole coerenza formale, naturalmente iper-citazionista, tra Fassbinder e A spasso con Daisy.

Riascoltata più volte “Catene” dà proprio l’idea di mettere in musica un’energia immagazzinata e tenuta sotto pressione per anni, forse per una vita intera, finalmente libera di fluire ed esplodere: in un singalong finale corale e liberatorio, una pace ritrovata attraverso la comparsa della morte, di cui andar fieri.

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