C’è posta per te, niente di nuovo
Tsunami di Generic Animal, da Generic Animal, 2018

Al termine del 2017 in Italia sembra che si possa fare canzone solo secondo il canovaccio del nuovo indie pop nostrano, proliferato attorno a canoni in realtà rigidissimi, in pochi mesi, come un’infezione epidermica. È tutto già saturo: solo il pop più mainstream può offrire una valvola di sfogo, con i Gianni Morandi e le Francesche Michielin in cerca di nuove vite. Miracolosamente pubblicato proprio all’avvio del nuovo anno, Generic Animal ha portato con sé l’ipotesi di un altro percorso, come un folgorazione marziana, che non si sa bene da dove sia arrivata, con le sue idee inattese, ma non si può che essere felici che si sia manifestata.
Come nasce il progetto Generic Animal è un po’ complesso da spiegare e francamente meno interessante di quel che si creda (seppure sia impossibile non farvi riferimento, come ogni cronaca del fenomeno del resto sta facendo). A cantare è il 21enne Luca Galizia, un terzo dei Leute, milanesi. I Leute sono i responsabili di 9 Songs, pubblicato da Legno nel 2016, raccolta (appunto) di nove canzoni in lingua inglese che stanno alle coeve nuove emocore band italiche almeno quanto questo esordio come Generic Animal sta al contemporaneo nazional-itpop, e quindi: come una disidratazione, una trasposizione sghemba, laterale, un filo perversa, estremamente intrigante.
Solo che Galizia non canta i versi di Galizia ma quelli di Jacopo Lietti, figura chiave dell’underground italiano degli ultimi vent’anni, frontman dei Fine Before You Came e dei Verme, fondatore della suddetta Legno, e poi grafico, paroliere, formidabile connettore tra altre esperienze artistiche. Contravveleno degli Havah musica alcuni dei suoi testi. Se c’è un parterre di penne meritevoli di ad aver avuto un’influenza ad amplissimo raggio sulla scrittura alt-rock italiana del post Duemila, Lietti è per forza tra loro, con il suo intimismo a intermittenza rassegnato e rabbioso.
Recuperando idee e frammenti della propria ricerca, alcuni dei quali fluidamente coerenti con le esplorazioni dei Leute, Galizia ha disegnato delle fragili architetture su questi versi non suoi, e lo fa appropriandosene, traslandone il senso. Il risultato è una versione molto libera e contemporanea dell’interpretariato d’autore, a conti fatti un antidoto clamoroso all’inconsistenza delle produzioni seriali delle edizioni musicali che appesta il pop italiano.
In Generic Animal sembra quasi che nessuno avesse un’idea precisa di dove la musica sarebbe andata a parare, ma nessuno si è tirato indietro: Lietti con i suoi versi sospesi sul punto di equilibrio ideale perché essi risultino aperti e si lascino attraversare da altri significati; Galizia in compiaciuto contorsionismo nell’atto di adattare le sue sonorità a questi stessi versi; anche Marco Giudici e Adele Nigro degli Any Other, essenziali nel dare una solidità acustica al tutto. In fondo se non ci fossero dei suoni credibili e una musicalità suadente, il quadro complessivo avrebbe esposto il suo elevato rischio di gracilità.
Invece è incredibile come in Generic Animal ognuno ci sente quel che vuole, rimanendo comunque sorpreso. Il passo dell’hip hop scarnificato di XXXTentation (o di un Cali, per restare in Italia), certe cavernosità new-folk alla The Tallest Man on Earth, il Calcutta pre-Mainstream e pre-Frosinone. A me suona come il nuovo jazz per chi al jazz ci sta arrivando dall’hip hop o lo conosce solo come ipotesi, stile BadBadNotGood, citati dallo stesso Galizia (in questa intervista a Rumore), sebbene in Generic Animal ci siano alcuni passaggi che mi fanno pensare persino a un Niccolò Fabi rimosso dalla sua campagna e tenuto di forza un paio di settimane in isolamento in un capannone industriale alle porte di Milano.
Più che di segreti, è una musica fatta di intrecci incompleti, frammenti accennati e lasciati ossigenare, reazioni chimiche che paiono spesso casuali e che proprio per questo brillano di singolare spontaneità. Il risultato è che si lasciano riascoltare e riascoltare, porose come sono, dove l’itpop si è consolidato su un modello rigido e chiuso, un compitino.
“Tsunami” è emblematica. Passo lento, ritmica a piccole dosi, che si accascia, come fosse volutamente incapace di restare in piedi tutto il tempo, un arpeggio di chitarra appena accennato, con un sacco di vuoto e silenzio a rinforzare i pochi elementi in campo, uno su tutti: la voce di Galizia, alta, un filo disperante, che si muove in agilità tra il graffio e il falsetto, e che non lesina in pathos. La struttura è appena un pretesto: “Tsunami” è articolata su tre strofe, l’ultima delle quali ripetuta, su una melodia che palesemente rincorre i versi, con le loro le pause autoriflessive e le esitazioni, e insieme la ricerca di una coerenza, di un ritmo che le tenga insieme:
Mia madre mi ha detto che calda la zuppa sarebbe più buona
Hai poi trovato lavoro?
Una manciata di versi eppure un carico notevole di immagini, che delineano una narrazione decisa, seppur scheletrica: un ritorno a casa che non ha nulla di eccezionale, anzi è intriso di rassegnazione e disincanto, quasi di irrisolvibile rifiuto. In questa specie di kammerspiel della provincia, l’unico personaggio realmente animato è il televisore, magnete malefico, unica forma di attrazione da parte di una figura maschile descritta con rara distanza.
Il tizio del meteo ci mostra tempeste tifoni tsunami
Galizia sembra cantare l’unica metrica possibile per la sequenza: il sopruso dell’immobilità, cristallizzata nell’immagine del disastro ambientale le cui immagini scorrono indefesse sullo schermo, a cui resistere con un canto sottilmente rabbioso, registrato come in assenza di eco, quasi un’apnea.

Fosse una canzone di asfissia, “Tsunami” non trasmetterebbe un senso di umana consolazione (che ascolto nel tono discendente dell’armonia, come nella sospensione del ritmo). Invece il disastro in arrivo serve a fare da sfondo alla creazione di una forma di intimità, un punto di arrivo che è, soprattutto, punto di lancio per un’idea di futuro, contrapposta all’apatia del quadro familiare:
Cancella gli impegni chiudiamoci in casa
Aspetta che dorma poi dimmi ti prego
Se anch’io russo così
Dai dimmi non saremo così
“Se anch’io russo così”: senza sciogliersi in un vacuo maledettismo, “Tsunami” compie un arco dallo ieri da cui si vuole fuggire al domani in cui si vuole trovare una motivazione (qui è l’amore, mai dichiarato tale). Funziona perché potrebbe essere una sequenza mesta e non lo è: con le sue trame liquide e gli spazi in cui infilare una suggestione personale, l’odore di un pomeriggio immobile o il colore di una carta da parati ingiallita, “Tsunami” riesce a far fluire l’aria dove non ci si sognerebbe nemmeno di trovarne.
Iscriviti alla newsletter: