Tra banani e palme
Mediterraneo di Andrea Poggio, da Controluce, 2018

Mentre scrivo, osservo che le canzoni che ascolto oggi, almeno quelle a più ampia diffusione, mi sembrano sbilanciate verso un individualismo anti-retorico, arbitrario nella sua schiettezza. Lo ascolto nella trap, come in quella che ormai si inquadra come ‘scena indie pop’: ci sono io e ci sei tu, che sei tu e basta, no sillogismi, no para, no seghe mentali, che “sono tutte cazzate”; il casino che faccia è solo casino che faccio, la musica che metti su youTube, ebbene, entra nelle liriche per quel che è – “musica che mettevi su youTube” – e l’orgasmo naturalmente è vero e concreto, e passa da strade che portano, tutte, alle mutande Ma proprio quelle mutande lì.
Non attribuisco un demerito a tale rifiuto di una retorica, per non dire basata sul simbolo, almeno sull’associazione di idee. Però quando ci si trova davanti un album come Controluce di Andrea Poggio è impossibile non notare la distanza da questo approccio, il suo desiderio di spostarsi (o tornare) verso un terreno in cui gli elementi non devono per forza dire quello che dichiarano, verso uno slancio che mette l’evocazione in primo piano. L’avvocato Poggio, nella sua prima espressione artistica a suo nome, si scopre abbracciare un espressionismo languido, discreto eppure pieno.
C’è Poggio “solo al bar della stazione”, una mattina come tante, prima di camminare nella controluce del mattino, mentre la città si risveglia, o in un quattordici di agosto, seduto sull’erba di un prato, mentre sulla metropoli soffia un “Vento d’Africa”. Oppure, su una costiera indefinita, mentre perde “lo sguardo nel mare infinito”. Non succede nulla: l’azione principale è una stasi, un’osservazione sospesa, come una meditazione degli occhi necessaria a ingaggiare una dialettica tra il sé e lo spazio. Non parla mai di sé, Poggio, ma è come se la sua scrittura ci portasse nel cuore della sua emotività: solo che è priva di nesso di causalità, è una sinusoide di sensazioni – malinconia e fierezza, riflessività e bagliore – che sembrano svuotate di intrugli psicanalitici come di infervorate affermazioni identitarie. “In una quiete abissale, tra i compro oro e le zanzare / Vado in giro nella notte per strade vuote / A tu per tu con il mondo” (“Vento d’Africa”).
È una scrittura suadente, sobriamente fascinosa, che dà l’idea di essere stata cesellata a lungo, nonché tradisce una forma di controllo alta, seppure non maniacale: non c’è un fronzolo, una divagazione, un doppione in questi piccoli quadri. Mi sembrano dei panorami in movimento, ma ritagliati dentro un moto appena accennato, come delle gif. Questa cura del dettaglio porta tanta luce dentro Controluce, di quella che schiarisce i dettagli e che rende nitidi i contorni, anche la sera. I luoghi evocati – la città, il parco, la riviera – si compongono a piccoli tratti consecutivi man mano che l’ascolto prosegue, dando vita a disegni assoluti, come emblemi universali: il mare, la metropoli, il Mediterraneo. Si riconoscono come archetipi, e questa familiarità genera una sensazione di benessere eccezionale, come un invito a goderne ancora.

Ma non è nemmeno bozzettismo fine a se stesso: il gioco più interessante, dentro Controluce, è scovare l’autore, schivo e abile, tradirsi in un accordo più malinconico degli altri, in una parola troppo appoggiata, o in un impeto di euforia da far ritornare subito nei ranghi. “Mediterraneo”, ad esempio, sembra tradurre la gioia reale di un paesaggio balneare stilizzato. Probabilmente solo immaginato: è verosimile pensare ai paesaggi dell’album come fossero evocati a distanza, magari dalla città, certamente Milano, citata esplicitamente. Addirittura la sequenza, descritta attraverso un’empatia con il paesaggio carica di grazia, sembra rievocare l’anima dell’Italia estiva di un tempo, attraverso quello che comunque pare un ricordo privato, un super8, un audiovisivo familiare che ha prodotto un’immagine iconica nella memoria, che riappare come in frammenti – di un momento sereno, di un’idea di infinito.
L’aria odora di sale, di mirto e oleandro
Venditori ambulanti e bagnanti sul litorale
Sentieri scoscesi e poi baie baciate dal sole
Finestrini abbassati, terrazze a strapiombo sul mare
Le baie baciate e i sentieri scoscesi, assonanze ricercate e sottolineate, altro non fanno che esaltare la natura sensoriale della canzone, che in verità attraversa tutto l’album, ma qui sembra dominare la scena, in un tripudio di odori, sensazioni termiche (“Vento che mi penetra sin dentro le ossa”), sfumature cromatiche complesse.
Naturalmente l’effetto non sarebbe lo stesso se la melodia non fosse così intrecciata a tutta questa ricca costruzione sensoriale. Allo stesso modo in cui i versi rievocano una realtà familiare seppur generica, il cantato di “Mediterraneo” segue traiettorie che suonano archetipiche: un semijingle avviluppato a una serie di variazioni semitonali nell’introduzione, che suona come una versione sintetica del Gruppo Italiano, e poi un motivo arioso, antico e radicato in qualche angolo remoto della memoria, per la strofa (non mi tolgo dalla testa l’idea che sia “Reginella”, il classico napoletano di Libero Bovio, a nascondersi tra le sue pieghe superficialmente algide, e che questo camuffamento sia consapevole).
Lo stesso ritornello, poi, è difficile chiamarlo così tale. Dopo l’esposizione della strofa c’è una variazione dell’armonia in minore, seguita da quattro battute dissonanti, tutte accentate sul rullante, in crescendo fino all’approdo: un richiamo tutto sincopato del termine “Mediterraneo” su cui innestare – nel finale – un florilegio orchestrale, quasi hollywoodiano.
Capace di far ripartire il brano attribuendogli una elegante circolarità, questa unità introduce toni minori e sottigliezze disturbanti, come a rafforzare l’idea che si tratti di un sogno ad occhi aperti della cui fine imminente si è coscienti, come se tutta la canzone altro non fosse che il risveglio consapevole di una sensazione in termini curativi: richiamare alla memoria una brezza lontana, con una precisione tale da essere in grado di risvegliare tutti i sensi, pur restando, ipoteticamente, nel chiuso di un appartamento. Del resto lo stesso titolo dell’album, Controluce, allude a questa condizione bifronte: la distanza, i contorni stilizzati che nascondono la realtà dei fatti, la soggettività. Tutte le innumerevoli deviazioni dissonanti che lo attraversano, alcune anche ostiche (“I turisti”), ne irrompono l’apparente serenità dello sguardo, spostando l’attenzione proprio sul contrasto.
Più si ripetono gli ascolti, più Controluce rivela una fiducia nell’espressione musicale densamente affidata a concetti come “esperienza” ed “evocazione”. Nonostante i suoi secchi 25 minuti di durata, l’album è uno scrigno di piccoli piaceri distillati con parsimonia, proprio per stimolare la reiterazione, invece che saturare. Per Andrea Poggio equivale alla prima pagina di un quaderno aperto per la prima volta, ancora fresco dell’odore di carta nuova: pochissimo traspare in quest’album della sua esperienza precedente come voce e leader dei Green Like July, se non qualche residuo nell’approccio melodico, o nell’affiliazione evidente con David Byrne. Qualche anticipazione di tutto ciò si può trovare, per esempio, in “Borrowed Time”, dall’ultimo album della band Build a Fire, del 2013, se si prova a rimuovere il cliché funky e a sostituirlo con un bagno nelle giuggiole di un, diciamo, Riccardo Del Turco. Per la verità, è impossibile far finta che tutto Controluce non risenta dell’influenza di Enrico Gabrielli, qui nelle vesti a lui congeniali di fattucchiere: ogni qualvolta che Poggio insinua dissonanze nelle sue allegre esplorazioni dei cliché pop, mi capita di pensare a certi esperimenti casualmente ‘leggeri’ dei Mariposa e alla voce di Alessandro Fiori.
In questo trattato di magniloquenza abilmente mascherata da un garbo piacevolissimo, “Mediterraneo” è il brano più aperto e raggiante, non per forza il più rappresentativo di questa scrittura comunque inedita, da accogliere a braccia aperte in questi anni stitici di melodia, ma certamente il più lussureggiante. Almeno quanto il “Mediterraneo” di Giuni Russo, altrettanto benefico e generoso di archi, volte, cascate, orizzonti. E forse è anche un brano nascosto nei cassetti di casa di Morgan, da qualche parte, in attesa che qualcuno abbia il fegato di tirarlo fuori, con la forza: ben celato tra banani e palme e miraggi metropolitani, stai a vedere che sia proprio Andrea Poggio ad averne ritrovato l’essenza, nella sua luce più autentica, e riversata qui, in questa tenue manciata di microsinfonie da appartamento.
Un’altra canzone: L’amore di ogni giorno diventa normale – “Spaziale” di Edda