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Se Dio sapesse di te

Le sei e ventisei di Cesare Cremonini, da Il primo bacio sulla luna, 2008

736 - Cesare Cremonini - Le sei e ventisei

“A parte i capelli, il vestito, la pelliccia e lo stivale /  aveva dei problemi anche seri e non ragionava male” (Disperato erotico stomp, Lucio Dalla, 1977).

Barricato in casa una settimana mentre la sua ex si sta già rifacendo una vita (“ti hanno vista alzare la sottana”), un disperato decide finalmente di uscire e fare qualcosa, normalmente, perché “l’impresa eccezionale, dammi retta, è essere normale”. Il primo atto che compie è incontrare una puttana “ottimista e di sinistra”; con lei non accade nulla di erotico nonostante, e non si capisce se sia un bene o male, ci si possa fare almeno qualche ragionamento.

Questo primo incontro di un giro a piedi a passo pesante (che in inglese letterale suonastomp”, come l’omonimo genere musicale), in ogni caso, non produrrà granché, lasciando il nostro “solo come un deficiente”.

L’incontro con la puttana è tra i passaggi chiave di Disperato erotico stomp di Lucio Dalla, da Com’è profondo il mare. Esilarante per la genialità dei dettagli: la descrizione grottesca dell’abbigliamento, il paradosso dell’essere ottimista e di sinistra, insomma, nel rientrare in una combinazione letale di casistiche tale da far dire, al protagonista, “non so se hai presente”. Spiazzante per la considerazione di lei che offre: in questo delirante itinerario notturno nell’auto-ridicolizzazione del maschio, la puttana è un essere femminile “ragionante”. Non è scontato: è il 1977, e une delle critiche più ruvide mosse dal movimento femminista è proprio la riduzione a oggetto sessuale della donna, anche (e soprattutto?) all’interno della lotta di classe. Se questa non è certamente la prima puttana nella canzone italiana, ha certamente delle caratteristiche inedite, tra l’irriverente, il quotidiano e il surreale, che la rendono un’entità non qualificata finalmente in funzione del suo ruolo; rispetto al narratore, in un certo senso, è “alla pari”. Se poi ci sia del sottile timore verso di lei nelle parole di Dalla, e se questo timore cela anche un velato sarcasmo nei confronti delle stesse rivendicazioni femministe, è un’ambiguità narrativa che soltanto eleva il potenziale del brano.

Forzando i termini, direi che Le sei e ventisei parte come uno spin off della sequenza con la puttana in Dalla. Nulla che venga dichiarato esplicitamente, certo. Ma si sa, l’affiliazione di Cesare Cremonini al mondo Dalla non è un mistero. E non si tratta solo di ambientazione, anche se il set bolognese – i vicoli in cui perdersi e i lupi solitari vagabondi trainati da birra nelle notti sbagliate – è tanto determinante in entrambe le canzoni. C’è anche una comunanza nell’azione: la disperazione come punto di partenza (“più lo chiami e più Morfeo ti dice: ‘Non ce n’è!”), la scelta di farsi forza e uscire, il brancolare in cerca di un incontro, che sia di consolazione o di distrazione. E poi, l’atteggiamento nei confronti di lei, almeno in parte, è il medesimo.

Come il disperato di Dalla, dunque, Cesare si ritrova scende “per strada in cerca di una birra” e si ritrova “a raccontare a una puttana tutti i tuoi perché”. Non ci sono particolari somatici che tratteggiano questa donna, se non un fragoroso sorriso, una voglia di ridere che serve da un lato a celare le afflizioni del vivere, dall’altro a fare da specchio al narratore, che in questo incontro ha certamente riversato, magari sotto l’effetto di una birra in più, tutte le sue paturnie.

Non pensavo di esser stato divertente invece guarda

come ride, sembra anche felice, molto più di me.

Ma se ti piace nascere al tramonto puoi dormire insieme a me.

La scoperta di un terreno comune scavalca i confini di ruolo: oltre il richiamo iniziale, lei non viene più identificata come la puttana, ma diventa un’incarnazione femminile assoluta, libera e malinconica insieme. Non c’è alcun riferimento moralistico al suo mestiere; al contrario, scoprendo in lei quella vicinanza nell’infelicità, lui si mette al suo fianco. Questa base comune trasforma il vagabondaggio notturno in una ricerca della terra promessa, tra il paradiso e lo spazio (“Tra Ferrara e la luna”, cantava Dalla, in Il parco della luna).

L’asfalto mentre corri sembra un fiume verso il mare

il panorama se ti volti è spazio e tu sei l’astronave.

Tenendosi a distanza dal paternalismo, ma anche dal grottesco che compare nel Dalla di Disperato, Cremonini pone il confronto uomo-donna su un piano confidenziale e diretto. Ci si muove su quel filo sottile tra complicità amichevole e ambiguità sentimentale che fa pensare al canzoniere Mogol-Battisti della fase finale, da Ancora tu a Una donna per amico (“In questa notte sbagliata la birra è finita sì / ma tu puoi essere mia amica?”, Le sei e ventisei), anche se, al posto del pragmatismo di coppia del tardo canzoniere mogoliano, qui è ancora dominante una forma di eroismo emotivo, un desiderio di elevare il confronto a due – che sia amoroso o amichevole, poco importa. Naturalmente, presentato insieme a una galanteria sottilmente “piaciona” che è piuttosto dentro il modo di parlare alla donna di Cesare e che ne fa un unicum tra gli autori italiani del post Duemila, per innocente spavalderia (“Già ti vedo vestita di rosa, ti comprerò casa, sei tu la mia sposa / Ma scendi più giù, vieni a darmi il buongiorno”, da Greygoose, 2014).

Tornando alle luci del mattino bolognese, i due compagni alternano euforia e down in un’altalena emotiva che, forse anche aiutata dall’ebbrezza, consente a entrambi di guardarsi dentro, attraverso l’altro, percependosi al contempo “liberi, prigionieri e simili”. In cerca di una “stella polare”, fantasticano questo luogo ideale dove finalmente “tornare liberi”, pur nella coscienza che il senso di inadeguatezza che li accomuna è, certamente, qualcosa di interiore: “Ma liberi da che?”, come una citazione quasi integrale di “Però liberi da che cosa” (Liberi liberi, Vasco Rossi).

Mentre la strofa avanza per cronaca di quanto succede, seppur in modo rapsodico e divagante, nel ritornello Cesare fa una sorta di “a parte”, in cui sembra di tracciare la sua considerazione su di lei in privato, una riflessione interiore. Ed è proprio qui che viene il sospetto che questa terra promessa possa essere un vero e proprio Eden.

Se Dio sapesse di te sarebbe al tuo fianco.

Direbbe: “Son io! Quel pittore son io!”

Facendosi bello per te.

Ma è troppo occupato a dipingere nuvole in cielo

per badare anche me.

Qui entra in gioco l’atto poetico: elevando lei al ruolo di dimenticata da Dio, si immagina la sorpresa nello scoprire la bellezza assoluta di questo personaggio, il suo essere quanto di più vicino, nella sua visione, al disegno divino (“Son io! Quel pittore son io!”), al punto che lo stesso Dio si dovrebbe sentire fiero di quel ritratto (“facendosi bello per te”). Ma non accadrà, perché tanto lei è una dimenticata, quanto lui un “non ascoltato”, un essere di margine, la cui voce non conta. Un derelitto.

La paradigmatica smisurata preghiera di De Andrè era: “Ricorda Signore questi servi disobbedienti alle leggi del branco”. Cremonini invece quasi “si arrabbia” con Dio, o comunque si accredita la delusione per il suo essere disattendo nei confronti di queste creature, io come te. Questo suo Dio

è troppo occupato a far piovere il cielo

dare vita a uno stagno e forza all’oceano

ed io come un vecchio scienziato

l’ho scoperto.

L’ho scoperto.

Ma cos’è che ha scoperto Cesare, nell’ultimo verso della canzone? “Come un vecchio scienziato” alla fine del suo percorso di costante interrogazione, quindi nella posizione di un bilancio finale, ha scoperto l’esistenza di un Dio che non vede o non ha tempo per preoccuparsi di questi animali notturni? E quindi Le sei e ventisei va letta come una canzone profondamente mesta sull’impossibilità di aspirare a una redenzione e la necessità dei perdenti di consolarsi reciprocamente? Oppure è proprio attraverso l’incontro con questa figura femminile che Cesare ha scoperto Dio, e allora l’immaginario cui attingere è proprio quello evangelico, del Cristo che manifesta la salvezza attraverso le figure marginali della società, prostitute e maddalene, “come un vecchio scienziato” che dopo una vita di ricerca accetta “la rivelazione divina”? E se i due distinti “l’ho scoperto” corrispondessero ciascuno a una lettura differente?

cremonini_sei_e_ventisei

È chiaro che il mondo Cremonini, a livello generale, raramente termina in amarezza o disincanto. Se veleggia in queste acque, è comunque per fornire una materia che il suo canto possa plasmare in consolazione. È una dinamica in cui Cesare si trova spesso in grande agio, e in cui è possibile osservare su suo ulteriore debito con Dalla: utilizzare la poesia del verso cantato per sublimare una condizione negativa – solitudine, delusione, afflizione – individuata in un soggetto spesso di sesso femminile –  e renderla “carezza”, evasione fantastica (esemplare è, tra tante, Il comico – sai che risate da La teoria dei colori, 2012).

Tuttavia il meccanismo funziona perché va ben oltre la dimensione lirica. Anzi, il testo di un brano come Le sei e ventisei, da solo, galleggia nei frammenti: le esclamazioni colloquiali (“guarda un po’!”), i personaggi che prendono la parola con un vero e proprio discorso diretto (Morfeo e Dio), il passaggio fortemente fluido dall’interlocuzione diretta – le frasi che Cesare rivolge a lei – a quella interiore – le frasi che Cesare rivolge a se:

Perderti nei vicoli, domani non svegliateci

c’è la luna da esplorare, la stella polare dov’è?

A voler insistere nel gioco delle parentele, tutti questi dispositivi retorici sembrano attingere felicemente al metodo Vasco.

Non voglio stare lì

sempre a chiedere “come mai”

a chieder sempre “per favore mi dai?”

E brava Giulia, e brava Giulia

prenditi la vita che vuoi

E brava Giulia, e brava Giulia

sceglitela, certo che puoi

(Brava Giulia, da C’è chi dice no, 1987)

Ciò che veramente è in grado di gonfiare nell’anima di questi frammenti e far diventare Le sei e ventisei un’epica della disperazione notturna, quale che sia il coinvolgimento di Dio in tutto ciò, è l’uso gigantesco che Cesare fa dell’armonia e, insieme, dell’arrangiamento.

Questo poiché la fiducia assoluta che Cremonini ripone nella composizione musicale lo rende una mosca bianca, se paragonato ai contemporanei. Senza cercare per forza l’arzigogolo, sia chiaro: suonato al piano, come accade nella versione di Più che logico – Live del 2015, Le sei e ventisei rivela una sorprendente semplicità. La costruzione è ben salda in maggiore (MIb), senza disorientamenti o modulazioni. Fedele alla sua ricerca vintage sull’armonia, Cesare costruisce il giro utilizzando in modo determinante l’accordo di quarta con basso in quinta e persino l’accordo diminuito, due soluzioni mutuate dal jazz e incanalate nel pop da personaggi come Paul McCartney (soprattutto il Paul solista, vedi Live and Let Die) o Randy Newman. Non si tratta di vezzi, ma di soluzioni pienamente funzionali: gli accordi hanno il tempo di ossigenare, lasciando al canto tutto il tempo per scandire questi versi compositi.

Le due strofe sono composte da sei versi, una numerica non comune. Nelle prime due coppie di versi, la melodia parte dalla nota che dà il tono al brano all’ottava superiore, e da lì esegue una variazione discendente.

Nella terza coppia di versi, Cesare si inerpica sulla terza nota della scala maggiore, su un registro già molto alto, almeno se uno si aspetta che sia il ritornello a “impennare”, e non la strofa. Fuori dal tecnicismo, è una strofa lunga e già ricca di giochi, saliscendi, esperimenti (sul “da” di “e invece guar-da” compare una variazione cromatica, una fascinosa “stonatura”, ancora molto McCartney). Che a me ricorda, e molto, un classico Mogol-Battisti meno in vista, ma straordinario, La luce dell’est. Anche lì c’è una strofa molto lunga, con due sequenze che partono dalla prima nota ed eseguono una variazione discendente, e una terza (“poi seduti accanto in un’osteria”) che modula la melodia proprio sulla terza nota.

Come il ritornello di La luce dell’est, anche quello di Le sei e ventisei parte invece dall’accordo di quarta maggiore e si sviluppa su una variazione spezzata del giro armonico maggiore (l’equivalente dell’arcinoto giro di Do).

In entrambi i casi, si arriva dalla strofa al ritornello passando da un blocco autonomo, una variazione della strofa che rompe il flusso prevedibile della composizione e che automaticamente proietta il picco a una lunghezza del brano già molto alta (1’22” per Cesare, 2’20” per Lucio), cioè quando uno canonico dovrebbe aver già esposto tutte le principali idee armoniche.

Peraltro in Cesare questa variazione – da “Guarda un po’” a “tutta la vita”, chiamiamolo bridge – compare in una posizione insolita, e cioè solo nel primo sviluppo del tema; la seconda volta scompare, sostituito da una ripetizione del verso “Se ti piace nascere al tramonto puoi dormire insieme a me” che agisce come un finale e invece apre a un nuovo ritornello, ancora più eclatante del primo nell’escalation.

Sono affinità melodiche ed armoniche, e volendo anche di struttura, che non fanno che far risaltare la cura certosina che Cremonini affida alla composizione musicale, e che si può riscontrare in gran parte della sua produzione. Strutture semplici che divagano imprevedibilmente, evocazioni che richiamano una tradizione ma che la tradiscono nel momento in cui meno ce lo si aspetta: un approccio profondamente battistiano, che vale già dai Lunapop. Che cosa sarebbe Qualcosa di grande, con le sue variazioni improvvise e i rallentamenti dal tempo in barba ai metronomi, senza Anna, Fiori rosa fiori di pesco o Dieci ragazze? E che cos’è, La luce dell’est, se non il ricordo di un breve incontro con una lei che diventa epico, nella sua imperscrutabilità, più o meno al pari di quello di Le sei e ventisei che parte dalla birra e arriva a Dio?

Non è citazionismo fine a se stesso: è che Cesare, nel suo classicismo, è in grado di identificare in modo cristallino i punti su cui innervare la melodia per renderla memorabile. Le sei e ventisei è, effettivamente, una melodia che non si dimentica, perfetta per essere cantata: con sapore seventies, le note prolungate e quei salti coraggiosi e “antichi” (su “Quel pittore son io!”, giuro, a me pare di sentire il barocchismo di un Dodi Battaglia in Noi due nel mondo e nell’anima, ma qui, è chiaro, è pura suggestione personale, totalmente positiva peraltro). L’arrangiamento degli archi, inoltre, è totalmente debitore di un certo pop sinfonico all’italiana, oggi ostracizzato a spada tratta, quasi fosse una macchia da lavare.

E allora Dalla, Mogol Battisti, Vasco, Paul McCartney, i Pooh: tutto ciò converge e defluisce in un classico, totalmente coerente con l’immaginario musicale Cremonini, che quando lo desidera è in grado di portare avanti pop sinfonico che suoni contemporanea, nel post Duemila, salvo scegliere, in totale libertà, di praticare i suoni e le strutture contemporanee (come in Logico o Lost in the weekend), sempre declinandole attorno al suo tema più ricorrente: il racconto di cosa succede quando due solitudini, collidendo tra loro, generano quella scintilla che consente di trascendere il mediocre quotidiano, quale che sia la natura del rapporto (“che tu sia uomo, donna, frocio, Lucio Dalla o Sinatra”, Figlio di un re, sempre da Il primo bacio sulla luna, 2008).

Una sfida ardita, che si può praticare solo se, di tutti questi riferimenti, si riconosce l’essenza, oltre lo strato superficiale. In fondo, se c’è qualcosa di cui c’è la certezza della “scoperta”, in Le sei e ventisei, e di cui certamente Dalla e Mogol-Battisti sono stati pionieristici maestri, è proprio nel dono della bellezza segreta rivelata dall’incontro fugace con questa donna, forse irripetibile, sicuramene memorabile, in questa sera dei miracoli: oltre le apparenze, all’ora in cui il sonno volge al termine, la notte smette di far paura, Dio fa sorgere il sole, Morfeo va a dormire, e si arrendono anche quelli, placidamente sfiniti, a cui piace nascere al tramonto.

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