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È tempo di dominare il fuoco

Settembre di Cristina Donà, da La quinta stagione, 2007

Cristina Donà - Piccola Faccia

Da Tregua (1997) a Dove sei tu (2003), passando per Nido (1999), la musicalità di Cristina Donà ha attraversato un processo di trasformazione graduale, seppur non radicale.

In Tregua, Donà ha imposto un immaginario armonico di notevole originalità per il contesto italiano: asperità armoniche, venature oscure, un senso del ritmo ribollente, un cantato fatto di momenti iper confidenziali e sbalzi improvvisi. Con Nido queste asprezze vengono incanalate in fenomeni più isolati, quasi sperimentali (Volo in deltaplano, Volevo essere altrove). La velocità tende a rallentare, la strumentazione si tinge di complessità e soprattutto nelle armonie sempre spigolose si gonfiano ‘sacche’ di dolcezze armoniche (Goccia, Mangialuomo).

Oltre ad essere due lavori di evidente bellezza compositiva, nel panorama italiano, sono anche due rari casi di debutto e conferma che non si impantanano su una formula consolidata, ma lavorano per spunti e potenzialità da esplorare: in Tregua Nido, simbolicamente pubblicati poco prima che arrivasse il 2000, la ‘forma’ Donà della canzone lascia intendere che i contorni siano ben più ampi e sfumati di quanto si poteva prevedere, certamente distante dagli stili di altre colleghe contemporanee, che al contrario hanno messo in luce da subito codici espressivi in qualche modo più ‘fissi’ (il pensiero corre a Carmen Consoli, già ben presente sulla scena quando Donà pubblica Tregua, sebbene la ‘cantantessa’ abbia comunque attraversato un’evoluzione importante, ma più dilatata nel tempo).

Al massimo, il percorso di Donà è più affine all’evoluzione che stanno attraversando alcuni degli artisti della gloriosa scena ‘alt’ degli anni Novanta (La mia generazione, come l’ha amorosamente chiamata Mauro Ermanno Giovanardi, nel suo album cover del 2017). Fra tutti, penso agli Afterhours, che nel 1999 cominciano ad allargare a dismisura la palette sonora in Non è per sempre. Il riferimento chiaramente non vuole casuale: è Manuel Agnelli a produrre i primi due album di Donà, e la sua influenza è evidentemente significativa.

Con Dove sei tu queste bolle di limpidezza armonica vengono a galla, palesi: fa il suo gioco il cambio di produzione, affidata a Davey Ray Moor dei Cousteau, ma si tratta di un cambio di carburante a un veicolo che era già in piena marcia. Donà prende gusto a flirtare con modalità quasi ‘pop’, e non lo nasconde: nel ritornello radioso di Nel mio giardino, nell’apertura in altezza di Invisibile; persino Triathlon, convulsa canzone quasi industrial, viene identificata col suo fortunato remix, firmato Casasonica, dai toni più vicini al big beat e al funky elettronico.

L’evoluzione è, principalmente, di contenuto. Tregua e Nido sono due album di individualità, auto-osservazione, isolamento. Dove sei tu è il disco dell’ebbrezza da ritrovamento della pace, da affermazione dell’equilibrio, un album di infatuazioni, rasserenata euforia, seduzione ‘matura’. Anche per questo, per la prima volta, la composizione sembra ‘piana’, sebbene Donà resti comunque affezionata alle sue dissonanze.

Che abbandona definitivamente con La quinta stagione, il suo quarto lavoro. Nel 2007 è come se l’artista non dovesse più celare l’ambizione aerea del suo comporre: gli attriti armonici non scompaiono del tutto, ma vengono dosati in modo straordinariamente sapiente, aggraziato, fluido (L’eclisse); di contro, ecco apparire episodi che lasciano spiazzati per gentilezza compositiva, semplicità melodica, efficacia ed emotività.

Eppure La quinta stagione, nella sua pacatezza compositiva, è il prodotto di un tumulto, il documento di un confronto col dolore che è stato gestito attraverso una inevitabile trasformazione.

Un lutto, che si inserisce nel ciclo della vita, comporta un abbandono, genera una ripartenza.

La quinta stagione è un concetto mutuato dalla medicina cinese, che si basa sul calendario rispettivo. “Le quattro stagioni ruotano intorno ad un perno, costituito da una decina di giorni in prossimità del solstizio d’estate, che sono una concentrazione di energia yang. (…) Vi sono, secondo i testi, due modi di utilizzare i giorni residui per spiegare il movimento delle stagioni. Questi giorni residui disposti alla fine dell’estate o intercalati tra una stagione e l’altra costituiscono la cosiddetta Quinta Stagione” (fonte).

Fonte: chinesemedicineliving.com
Fonte: chinesemedicineliving.com

Secondo un modello, questo periodo di 18 giorni precede ogni cambio di stagione. Secondo invece una visione scalata lungo i 12 mesi, la Quinta Stagione è la ‘tarda estate’, un periodo che la medicina cinese vede come contraddistinto da alcune specifiche patologie: dolori articolari, pesantezza, problemi connessi alla milza e allo stomaco.

È la stessa Cristina Donà che ne chiarisce l’approccio: “Il titolo La Quinta stagione, viene dalla medicina cinese: è il momento in cui ci si prepara all’arrivo di qualcosa” (Jacopo Cosi, Donà: «Ecco la mia quinta stagione», L’Unità ed. Firenze, 22 dicembre 2007).

Trasformazione, migrazione con energie contrarie, verso l’inverno. Settembre, in buona sostanza.

E Settembre, con i suoi fruscii ventosi che precedono le scarne note di un vibrafono, è l’ingresso in questa dimensione temporale, o sarebbe meglio dire l’uscita: perché La quinta stagione dà esattamente l’idea di essere la fotografia di una stasi dopo una tempesta, il primo passo fuori da una galleria durata troppo, un momento prima di tornare a gioire, quando si è ancora straniti dal travaglio passato, da non rendersi conto che è finito.

Che sia l’inverno il punto di arrivo, è relativo: le quinte stagioni si ripetono quattro volte, e si realizzano nel passaggio da una condizione all’altra. Uno stato climatico di transizione, che lascia storditi per la compresenza degli elementi: “Il sole a settembre mi lascia vestire ancora leggera”.

È il momento giusto per sciogliere le esitazioni, lasciare entrare “la verità e la bellezza”, che “non fanno rumore. L’invito proviene, anzi proveniva, da un “tu” enigmatico, del quale non viene fornito alcun riferimento.

Cercare di identificarlo sarebbe come rompere una magia pensata per rimanere nello stadio dell’evocazione, più che delle narrazione. Che si tratti di un dialogo amoroso o del ricordo di un saggio consiglio di un caro, conta il tipo di contatto: nell’ambiguità delle parole, è come se questa figura avesse un ruolo di discente, una sorta di maestro interiore, che può essere anche la propria anima, che ha già suggerito qualcosa di cui il narratore prende coscienza adesso: “Tu lo sapevi che nessuna gioia nasce senza un dolore / Basta solo farlo guarire, basta lasciarlo entrare”. Come in altri brani di La quinta stagione, ritorna l’idea che si tratti di un’anima che ha lasciato la Terra a essere rievocata, magari dopo una fase di dolore acuto, anche fisico (“è tempo di rinunciare al veleno”), magari la medesima a cui Donà chiede di parlare del “codice stellare che morire non può”, in Universo.

Chiunque sia, il suo contatto è curativo, più che lenitivo. Settembre agisce come limbo della rigenerazione, la stagione cangiante e l’influenza dello yang impongono una presa d’atto.

E allora, come una preghiera laica a se stessi, il ritornello declama che è “è tempo di ripulire il pensiero”, “dominare il fuoco”, “ascoltare davvero”, “imparare davvero”. La musica è essenziale, come in un giardino giapponese, ma imperiosa. L’armonia, costruita su un valzer in minore, più che malinconica sembra muoversi nell’incitamento, come dicesse “muoviamoci, è ora”. Il basso ascendente sembra ‘trascinare’ questo corpo finora impaurito, gli armonici del vibrafono creano un soundscape quasi lunare, certamente non terreno; la voce, sulle sillabe “è tempo di” in apertura di ogni frase, è raddoppiata, come se ci fosse un altro uno, l’anima o quel “tu” a rafforzare l’atto.

Questa polivalenza del significato è uno dei meriti del fare canzone di Donà, perseguito secondo principi che in La quinta stagione diventano ancora più essenziali.

Più tardi (in Torno a casa a piedi), una Donà più consapevole e decisa riuscirà più spesso a riferirsi esplicitamente alla società, alla città e alle sue piccole nevrosi. Nel suo vocabolario compariranno termini come “rivoluzione”, “cellulare”, persino “Suv”. Tutto ciò non sarebbe stato possibile se i versi di Donà non si fossero fatti così cristallini, le parole tanto miti e pesanti al contempo. A volerlo vedere in termini di evoluzione del “sé artista”, La quinta stagione è anche il momento in cui Donà può fissare i punti della sua creatività, liberandosi da scudi e difese, definitivamente pronta per il tuffo nel mondo.

In questo senso, non sembra un caso che Settembre, come un’altra manciata di brani, sia stata prontamente ricantata in Piccola faccia, l’album acustico che Cristina Donà incide solo un anno dopo La quinta stagione. Senza intenti celebrativi, ma quasi più per dar corpo concreto a questa idea del ‘punto e a capo’.

In Piccola faccia, Settembre è cantata insieme a Giuliano Sangiorgi dei Negramaro. Il suo ruolo è essenziale, non decorativo, e va a rendere concreta, se non fisica, una delle possibili interpretazioni della canzone: Sangiorgi incarna il “tu” in una figura maschile, e con un’interpretazione dolce ma poderosa, gli soffia dentro un afflato di carnalità. Quel “è tempo di” si carica di forza e coraggio, di virile sostegno, con una punta di insistenza, quasi ansiosa (quel “no, no, no” propulsore, che Sangiorgi infila nel gracile balzellare della voce di Donà). E allora in questa seconda versione, quell’amore che “a settembre mi ha fatto sentire ancora leggera” assomiglia molto più all’immagine di una coppia che è riuscita a trasfigurarsi, superare una tempesta, rinunciare ai veleni, magari rifuggendo il silenzio, “ascoltandosi davvero”.

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