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Raccogliendo le energie: Giuni Russo e Armstrong

Giuni Russo ci ha lasciato nel 2004. È accaduto pochi mesi dopo un’accorata, straordinaria partecipazione a Sanremo. Portò Morirò d’amore, un brano pucciniano, un tessuto decorato di morbidi florilegi elettronici che nel ritornello esplodeva di epos e romanticismo, opera e catarsi. Era malata e non lo nascose, anzi: fece del suo capo e del suo corpo un’estensione della sua espressione artistica. Rivista oggi, l’esibizione di Morirò d’amore era un trionfo drammatico, forse una delle ultime esibizioni sanremesi che ricordi in cui il cuore era in grado di pervadere i sensi, il chiacchiericcio soporifero dei media, le idiozie della gara. La canzone aveva più di vent’anni, ed era stata scartata già due volte a Sanremo. Giuni si impose con Pippo Baudo perché la potesse portare in gara. Arrivò sesta.

Da allora Giuni è una nuova vita. Il merito è in gran parte dell’iniziativa ardente di Maria Antonietta Sisini e, conseguentemente, dell’associazione Giuni Russo Arte, fondata nel 2006 per tutelare il patrimonio artistico della cantante e divulgarne le sfumature. I molti album apparsi, a cadenze quasi regolari, paiono dirci che Giuni c’è, che il suo tesoro artistico è inesauribile e che ancora non abbiamo che una minima percezione del suo linguaggio, cioè quella che il sistema discografico ha consentito, dietro compromessi e spiragli a volte casuali. Trascrizioni di live irripetibili (Napoli che canta, Las moradas), collezioni di cover mai pubblicate, emerse dagli archivi come scrigni (Para siempre), riedizioni di album da tempo fuori catalogo (Giuni Album, accompagnati da una serie di registrazioni inedite in Fonte d’amore).

Lungo questo percorso di archeologia di un’icona, colpisce l’attenzione che Sisini e l’associazione hanno dedicato alle rivisitazioni e alle libere interpretazioni. Nel 2006 viene pubblicato Unusual, singolare collezione di remix e duetti “virtuali”. Invece che apporre alle registrazioni nomi di convenienza commerciale, vengono scelti dei collaboratori in linea con l’eclettismo congenito a Giuni: c’è Battiato, certo, ma ci sono anche Vladimir Luxuria, Caparezza, persino le Carmelitane Scalze, che un ruolo cruciale giocarono nell’esistenza dell’artista. Nel 2011 viene ripubblicato A casa di Ida Rubinstein, l’album del 1988 in cui Giuni si distaccava dal pop per imbracciare una singolare fusion tra opera, pop e sperimentalismo. Un disco sottaciuto, magistrale, irripetuto. Un atto di libertà e rivendicazione artistica, di enorme fascino, che appare in un’edizione bifronte: da un lato la registrazione originale, rimasterizzata a puntino per restituire la spazialità della voce, dall’altro rifacimenti con personalità della scena jazz ma dallo spirito aperto, come Paolo Fresu e Uri Caine dall’altro.

Sembra che Sisini sia mossa dall’urgenza di completare i vuoti nella storia di questa artista, di fornirci la complessità del suo sforzo musicale, come se non volesse lasciare che la memoria di Giuni fosse affidata ai fegatini dell’industria discografica, ai tentativi di sfruttamento, alle incoscienti dicerie. Fondamentale in questo senso è la biografia scritta da Bianca Pitzorno e pubblicata nel 2009: un libro accorato, che rivela una volta per tutte il prezzo pagato da Giuni per non aver voluto acconsentire alle richieste sordide del mercato (ma che non edulcora le sue spigolosità caratteriali). Ad esempio, racconta molto bene gli sciacallaggi fatti sul catalogo discografico prima e dopo la sua morte, fenomeno che ha in qualche modo motivato la nascita dell’associazione e di una forma di tutela di questo patrimonio. Ristampata e aggiornata nel 2017, è una biografia fuori dal comune, a tratti struggente e comunque illuminante.

Ora, nel 2017, questo progetto – che ha qualcosa di museale, nel senso più luminoso del termine – sforna Armstrong. Mancava, in questo tragitto di (ri)scoperta, una tappa che documentasse ciò che Giuni e Antonietta erano poco prima che la storia cominciasse davvero. Che riportasse in vita canzoni cadute nel vuoto per le ragioni più oscure: sfiducia, casualità, contesti che mutano. Servivano? Aggiungono? Svelano? Evidentemente sì.

Sono stati rispolverati otto provini inediti, registrati voce e chitarra da Giuni e da Maria Antonietta, raramente così udibile e presente su disco. Risalgono ai primissimi anni Ottanta, e suonano verosimilmente come precedenti alla pubblicazione di Energie con la produzione di Franco Battiato. È il periodo in cui le due donne peregrinano con dei demo in tasca da una casa discografica all’altra. Come bene illustra il libro di Pitzorno, Maria Antonietta e Giuni sono in cerca di un’identità artistica e insieme i vari ‘mentori’ in cui si imbattono cercano di affibbiarne una, secondo le mode del momento. Ci sono quelli che provano a far cantare Junie – come si chiamava fino a pochi anni prima –  in inglese, che la invitano a buttarsi sulle sexy-song ambigue alla Amanda Lear. Più avanti, cercheranno di convincerla a diventare una Annie Lennox o una revivalista anni Sessanta. Alcune etichette le costeranno carissimo, altre sono ancora striscianti, mai elise.

Armstrong contiene otto canzoni. Una – Never Lets Me Go – è in inglese, e fa squadra a sé, perché ha già una confezione. Le altre sette compaiono in duplice veste, in demo originale e riarrangiate in chiave contemporanea. A svolgere il delicato compito di dare una scatola sonora ai provini originali c’è Stefano Medioli, già arrangiatore dei dischi di Giuni, insieme a Pino “Pinaxa” Pischetola.

Il rischio di snaturare l’originale era molto elevato. Eppure, l’operazione funziona, emana un fascino singolare, a tratti straniante. Poco di quanto si ascolta è accostabile alle sofisticazioni elettropop battiatesche e alle suggestioni classiciste di Energie o Vox. Non c’è l’austerità di Il sole di Austerlitz o l’eclettismo sbilenco di Una vipera sarò.

Giuni, si sa, era oltre il modello, era l’originalità che fa esplodere se stessa. Anche per questa ragione suscita una certa curiosità sentire in questa manciata di canzoni echi familiari: suggestioni armoniche sixties, sinuosità melodiche da pop italico da metà anni Settanta, lo stile Fossati/Prudente, Mia Martini, molto Battisti. Ipotesi di parentele che servono soltanto a confermare quanto la sua espressione artistica avrebbe potuto serenamente giocare ‘alla pari’ nel contesto che era la musica dell’epoca. E che però insieme svelano già la ‘differenza’ della sua impostazione, la sua imprevedibilità congenita, l’essere già oltre l’archetipo: quando una brezza ironica agguanta uno slow terzinato alla Motown (Se volessi amarti), o quando le ritmiche si fanno più sbarazzine, incrociando la spiaggia – non ancora un incubo, all’epoca – e persino strambe velocità tra punk, new wave e cocktail music (Armstrong).

Si sente la voce in cerca di identità, che è stata volutamente non filtrata, rimaneggiata o ritoccata. A volte assomiglia alla Giuni che avremmo imparato impareremo a conoscere. In altri casi, invece, emana fragranze sconosciute, e viene da pensare che l’obiettivo della pubblicazione sia proprio quello: spiazzare, offrire uno squarcio autentico su un’identità in piena ricerca di sé, colta in quel delicato momento in cui essa si avvicina a dei modelli per poterne constatare la sua distanza.

Il gioco dell’ascolto affiancato tra gli originali e i rifacimenti è potenzialmente infinito: Lacrime e sogni, nel demo originale, risuona lancinante come un Lucio Battisti Anno Domini 1971, mentre nel rifacimento diventa un turbine di controtempi e raddoppiamenti, un rock fuori dal tempo che potenzialmente potrebbe coprire quindici anni di era geologica.

Non fare come me spiega bene perché Giuni fosse così complessa da ‘inquadrare’, a livello discografico: è una ballata in mid-tempo in minore, aspra e minatoria, registrata quasi interamente a due voci, con gli acuti di Giuni a sbilanciare i pesi; nella versione 2017 la si è voluta avvicinare a un morbido neo-soul, qualcosa di vicino a certi brani di Mina di metà degli Ottanta, diciamo da Finalmente ho conosciuto il Conte Dracula. Nel complesso sono interventi attenti, che non stravolgono ma semmai offrono un ‘potenziale’ espressivo rispetto ai demo, e comunque fatti con coraggio, perché non hanno sentito l’esigenza di affibbiare una qualche modernità d’accatto al suono originale.

Se Armstrong ha un valore inedito, soprattutto, è per le immagini che traspaiono dalle liriche: essenziali, non artefatte, decisamente intrise di realismo, delusione, vulnerabilità. È una donna (o forse due) che dovrebbe essere nel pieno dell’esplosione di fiducia nei confronti del sentimento, e che invece è lucidamente oltre la soglia del fallimento (“Qui l’amore se ci prende prende male”, Se volessi amarti), in un’area grigia tra la constatazione del disagio e il desiderio di farne tesoro per non cedere più al compromesso. Lo si ascolta in particolare in Non voglio andare via, canzone che ha anche un video, diretto da Carlo Fenizi, che sta girando un film sulla vita di Giuni, con la partecipazione di Maria Grazia Cucinotta. 

Non voglio andare via pare un manifesto di poetica: riassume un atteggiamento nei confronti della vita e ci si può leggere persino l’opinione di Giuni sul suo ruolo nel contesto discografico, in modo già nitido:

cerco la mia strada e sembra quasi che io chieda l’impossibile

sarò pazza o pure no, ma qualcosa inventerò

e le gentilezze false quelle in tasca le terrò

Sono parole in cui leggerci il senso di fastidio per l’ipocrisia, la diffidenza, persino la cognizione di aver fornito un’immagine di sé tra determinazione e autonomia difficile da incasellare per il mondo. Ben conscia delle insidie, questa Giuni ribadisce la posizione che è determinata a mantenere, per sempre:

non me andrò come son venuta

continuerò sulla mia strada

combatterò senza aver paura

non voglio aver paura

Coscienza, lucidità, rivendicazione, autonomia: Giuni – e con Maria Antonietta – questo bagaglio di valori l’hanno sempre difeso, portato avanti con fierezza, caricandosene il peso sulle spalle, assumendosene le conseguenze. Armstrong ne è forse la documentazione più interessante pubblicata finora: perché è materia non lavorata, potenzialità in cui scorgere la compiutezza, sfumatura instabile.

È chiaro che chi vuole approcciarsi a Giuni non deve partire da qui, ma reimmergersi nella folgorazione aliena di Energie, farsi sedurre dai languori armonici di Mediterranea, impantanarsi nel petroliniano e delirante nonsense di Se fossi più simpatica, inseguire gli svolazzi marziali irripetibili di Lettera al governatore della Libia. E rivedere Giuni a Sanremo, per forza. Ma Armstrong non è un accessorio: è un pezzo di una collezione che nessuno aveva idea che esistesse, come quelle stanze dei musei meno vistose, intraviste di passaggio, ignorate per superficialità.

Chi si riempie la bocca di facilonerie sul concetto di “indipendenza artistica”, oggi, dovrebbe rileggersi la storia di Giuni, esplorarne le contraddizioni, cercare di interpretarne le traiettorie. Non augurare a nessuno di rimanere una vita con le caviglie incatenate a una spiaggia.

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