Passa a miglior vita
Vieni a ballare in Puglia di Caparezza, da Le dimensioni del mio caos, 2008

Forse il più problematico equivoco della carriera di Caparezza è quello di essere stato associato, a fasi cicliche, a un personaggio da tormentone. Proprio lui, che negli album ha sempre voluto far confluire una sorta di disegno più grande, lui che si è dannato per creare connessioni e fili tematici e persino ricorrenze, ha dovuto improvvisamente fare i conti con il “prezzo da far pagare” a chi d’improvviso si impone grazie a una canzone. E gliel’hanno fatta pagare realmente cara: nel 2003 il rap in Italia è ancora un linguaggio marginale, in termini di diffusione, l’attenzione della stampa è superficiale, e in più gli integralismi interni al genere non vedono di buon occhio che una canzone come Fuori dal tunnel che in fondo pare un divertissement, ma non lo è, sia diventata forse il primo grande successo rap trasversale – cioè in grado di superare il bacino dei cultori del genere – dai tempi di Frankie Hi Nrg Mc e Sottotono.
Fuori dal tunnel innesca una duplice beffa: il successo deborda, trasforma il brano in una sorta di ossessione collettiva, una hit da ballare irrinunciabile in ogni contesto, dalle feste di laurea ai preserata dei locali più in voga fino al terrore dei terrori: l’aquagym in spiaggia. Per un brano che prende di mira proprio l’atonia della generazione Duemila nel costruirsi un proprio immaginario del divertimento, è una tortura.
Già dal suo lavoro successivo, Habemus Capa, sarà evidente l’intenzione di affrancarsi dalla minaccia di diventare una one-hit wonder, compilando complessi affreschi narrativi, ricercando una sorta di livello macroscopico attraverso cui guardare la sua espressione artistica, e nondimeno piazzando qua e là stilettate autoironiche che dissacrano lo stesso successo strabordante di Fuori dal tunnel.
Eppure come una nemesi, Caparezza dovrà tornare a confrontarsi con una canzone che gli sfugge di mano, un successo inatteso che come un demone si staccherà dalle intenzioni artistiche per deformarne il messaggio. E in questo caso la problematicità sarà ben più ingente: perché Vieni a ballare in Puglia, da Le dimensioni del mio caos, è una delle canzoni dal peso specifico più ingombrante, e mortifero, della sua intera carriera. Il grande successo e soprattutto il suo utilizzo diventerà un colossale baco, una fonte perenne di fraintendimento, un’ulteriore fianco da prestare ai detrattori, una fitta alla tempia improvvisa ogni volta che il brano coronerà una pizzica improvvisata dal sapore di Disco Samba nel più truce dei matrimoni, compresi quelli ambientati in Puglia (e pensare che Caparezza arriverà al punto di chiedere, esplicitamente, di “non suonare il pezzo” nei riti nuziali).
Eppure Vieni a Ballare in Puglia è uno dei pezzi più rappresentativi dell’approccio civilistico dell’autore, uno di quelli in cui la fusione tra trattazione tematica ed enfasi musicale raggiunge la forma più elaborata ed armonica. Chi segue Caparezza con la dovuta attenzione sa riconoscervi gli elementi di grazie: la tensione tragica, il sarcasmo venato di nero, la lucidità con cui fa detonare l’ipocrisia.
Ora, nel 2008 la Puglia è un fenomeno turistico attivato in particolar modo da una serie di starter culturali. Senza la pretesa di analizzare l’efficacia del modello di marketing turistico impostato in oltre un decennio, supponiamo sia valida questa assunzione: è il fenomeno “taranta” a rappresentare uno degli apripista più formidabili alla colonizzazione del territorio. Il gigantismo crescente della Notte della Taranta coagula un proliferare di feste, sagre e festival folk, spesso al confine tra scoperta culturale e abuso strumentale, mentre a Nord e nei centri cittadini esplode una specie di saudade pugliese dalle dubbie radici, corsi di pizzica a Rozzano, ristoranti salentini alla Bolognina, eccetera eccetera eccetera. Non è il caso di discutere quanto il territorio pugliese abbia acquistato in termini di lavoro e sviluppo economico e quanto tutto ciò sia stato anche esso “un racconto”. Ci interessa denotare come Caparezza, in quanto fenomeno esploso praticamente in simultanea con questa riscoperta della Puglia, possa aver maturato spesso il sospetto di esservi accostato, con faciloneria da comunicati stampa e grossolanità da sintesi forzate.
Caparezza, artista pugliese di fama nazionale che eccezionalmente non si è trasferito per esercitare la professione, del Sud ha sempre parlato avendo la massima cura di non fornirne un’immagine oleografica. Anzi: in canzoni come “Giuda me” emerge uno sguardo corrosivo a un sud trucemente gentrificato, popolato da mostri succubi di un’immagine del benessere che non esiste, perché è tutto racconto (“La realtà giù da me è una realtà virtuale eccome / Ho la netta sensazione / Che tutto si dissolva in una bolla di sapone”).
Ma Vieni a ballare in Puglia realizza un’ambizione più ampia, e di conseguenza difficile: nel momento in cui la Puglia è diventato un potente argomento di marketing, con il “ballo” a fare da etichetta più simbolicamente attraente, Caparezza ricorda sardonicamente al turista medio in foia da pizzicata e pasticciotti che potrebbe alzare lo sguardo dalla sua costruita “Puglia virtuale” per vedere un reale ben più aspro, in cui la morte al lavoro, i veleni ambientali, la disoccupazione sono ancora temi di presenza quotidiana ed effetti a lunga durata. Peraltro, la questione pugliese è estendibile, pur con le diversità di ogni contesto, a tutti i simbolici Sud d’Italia, come Caparezza stesso chiarisce, parlando di Paese (“Turista tu balli e tu canti, io conto i defunti di questo Paese”).
Doccia gelata: il turista a cui parla Capa diventa una specie di grottesco ominide chiuso in una campana di vetro, mentre tutto attorno i locali danzano una danza di morte, come degli zombi (che hanno un volto concreto nel lugubre video).

Fedele al suo rifiuto dei mezzi termini, Capa fa il guastafeste fino in fondo: nel momento in cui non pensare al male e godere del ritrovato interesse, avvelena l’aria sollevando il velo dell’apparenza.
La dionisiaca Taranta in maggiore diventa una sorta di ‘taranta trance’ dall’incedere pesante e dai toni minori, affine parecchio a una marcia funebre. Ballarla con il sorriso sul volto ha qualcosa di macabro. In piu, Capa contamina un’altra immagine simbolica: il featuring di Al Bano, che di fatto introduce ironicamente il tutto, è un ulteriore contaminazione tossica di icona turistica, eccellenza territoriale da esportazione, come se quel sole che il Carrisi porta nel suo personale racconto come ispirazione assoluta fosse in realtà già radioattivo, l’acqua malsana, i raggi cancerogeni.
Certo, ancora un volta si obietterà a Caparezza che il ritornello è irresistibile e non fa niente perché non lo si possa ricordare come un tormentone. Ma è un rischio che corre con coscienza: più che distruggere un entusiasmo, Capa vuole fornirne una versione della Taranta al negativo, che resti cantabile e memorabile, un’elegia di un sogno di benessere mai conseguito, però nel profondo rispetto dell’immaginario locale. Non si spiegherebbe, altrimenti, il largo attaccamento al brano di chi in quel brano avrebbe potuto leggere una forma di denigrazione spietata della sua tragedia, e non l’ha fatto, e cioè i pugliesi stessi: come se, pur sollevati dalla coscienza di un ritrovato interesse da parte degli “altri”, quella canzone fosse un costante monito a ricordare chi siamo, chi ci dimentichiamo di essere e chi non vogliamo omettere di essere stati, da dove veniamo, dove scappiamo, dove vanno a finire quelli che rimangono. Da dove vieni, tu:
Turista tu resta coi sandali, non fare scandali se siamo ingrati
E ci siamo dimenticati d’essere figli di emigrati
Mortificati, non ti rovineremo la gita
Su, passa dalla Puglia, passa a miglior vita
Perché sul profondo di questa canzone arcigna e malinconica si cela, ancora, la grande questione meridionale di sempre, il tema che è passato di moda sollevare dai tempi della Cassa del mezzogiorno, affogato dentro braci di retorica sulla riqualificazione, la Salerno Reggio Calabria Bagnoli il quartiere Tamburi le discariche di Chiaiano i fuochi sul Gargano la mafia che non esiste più le startup al sud i call center esternalizzati dalla Calabria all’Albania eccetera eccetera eccetera.

Tutti questi mostri retorici, queste ‘grandi opere’ strumentali a fare razzia di tutti i Meridioni d’Italia, raccontati anche se solo in minima parte da un libro raggelante come Se muore il Sud di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, questa orgia di usurpatori che hanno mutato le etichette ma non i processi, le ecomafie e le agromafie (“Vieni a ballare, compare, nei campi di pomodori”), le schiavitù contemporanee e il caporalato (“Rumeni ammassati nei bugigattoli / Come pelati in barattoli / Costretti a subire i ricatti di uomini grandi ma come coriandoli”), il qualunquismo ambientale delle classi dirigenti illuminate (“Mare Adriatico e Ionio, vuoi respirare lo iodio / Ma qui nel golfo c’è puzza di zolfo, che sta arrivando il demonio”), tutte queste tracce di veleno in mezzo a una cartolina di acque cristalline e prodotti della terra incontaminati concorrono, soprattutto, a creare una sorta di condizione sentimentale basata sulla frustrazione, una crasi lancinante tra un Sud ricreato (nei bellissimi set delle fiction seriali, nelle tovaglie a quadri imbandite di una miriade di spot pubblicitari) e un Sud omesso, sepolto e ricoperto da montagnette di alberelli felici, come in una discarica abusiva.
Usando la lingua e il ritmo in un modo che lo stacca anni luce dalla canzone politica più retorica dei suoi contemporanei, Caparezza in Vieni a ballare in Puglia è riuscito a far sentire l’esatto dolore che provoca questo spillone conficcato in un angolo remoto della coscienza meridionale, questa brutale sensazione di esproprio e ratto, che nel post Duemila è soverchiata dalle raffinate forme dello storytelling e della narrazione cinematografica: la riqualificazione, la riscoperta, il turismo sostenibile, il ritorno alla campagne, le Maldive del Sud, eccetera eccetera. Spingendo al limite del nero il suo sarcasmo, sostituendo l’immagine degli zombi a quella dei fumetti, Capa ha rimosso ogni possibilità che di questa sua contro-narrazione si potesse ridere: il risultato è che alla fine Vieni a ballare in Puglia rivela una dimensione tragico-epica, trasformandosi in un inno d’amore sincero e straziante, intriso di malinconia e di resistenza.
Tutto ciò è espresso da un finale abbacinante, che sa di pianto collettivo e di danza finalmente liberatoria: scompare il ritmo elettronico, la pizzica ritrova la sua forma tradizionale, il coro invoca “o Puglia Puglia mia”, come una preghiera lancinante.
Oh Puglia Puglia mia tu Puglia mia
Ti porto sempre nel cuore quando vado via
E subito penso che potrei morire senza te
E subito penso che potrei morire anche con te
Da “senza” ad “anche con”: in una costruzione antica, qui sì finalmente dentro la tradizione folk, un avverbio sostituisce il suo opposto e fa convivere, come in un paradosso, due sensi opposti, la morte interiore del migrante lontano dalla sua terra e la morte concreta, biologica, del residente che rimane. Come diceva Giorgio Gaber, “Due miserie in un corpo solo”. Tormentone sì, ma che tormento.