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Politica pure quando respiro: spedizione Caparezza

Se c’è una caratteristica che, nel post Duemila, rende Caparezza profondamente anacronistico al confronto con la produzione musicale italica tutta, è nel suo ipertrofismo narrativo. Dal 2006 ben quattro su cinque delle opere che pubblica sono a tutti gli effetti concept album. Di questi ce n’è uno – Le dimensioni del mio caos – che è concepito in termini strettamente drammaturgici e pubblicato simultaneamente a un libro, Saghe mentali. Viaggio allucinante in una testa di capa, in cui un capitolo ne espande gli sviluppi integrando ai testi delle canzoni sezioni in prosa. Nel momento in cui scrivo inoltre non posso conoscere i dettagli di Prisoner 709, l’album pubblicato nel 2017, ma la lettura dell’elaborata tracklist lascia pochi dubbi sulla possibilità di trovarsi davanti a un’altra forma di “concetto”.

Oltre ragioni pragmaticamente commerciali – la scomparsa del supporto e la liquidità imperante dell’ascolto in streaming rende ancora più complesso approcciare un’opera di ampie dimensioni – il concept album nel post Duemila è ritenuto anacronistico per status: un’ossessione da cetacei del rock classico, o peggio del prog rock, che puzza di complicazione e di sforzo mentale, di ambizioni smisurate e di ego impossibili da contenere. Concept, in senso letterale trasfigurato: troppe idee, troppa carne al fuoco, troppo, tutto troppo.

Dire che per gli italiani il concept album pop esprimerebbe una forma di parentela stretta con la tradizione operistica potrà forse essere una forzatura. Eppure ci sono artisti che, imbroccata la strada del concept, hanno deciso di non farne più a meno, che fosse esso a carattere tematico, come Fabrizio De Andrè, o narrativo in senso stretto, come Claudio Baglioni. E che cosa dire di un non allineato completo come Vinicio Capossela, che da oltre un decennio non pubblica che opere che debordano persino fisicamente dai confini del supporto per avvicinarsi a una sua personalissima idea di opera monstrum, complessiva, da leggere in stretta e aperta relazione con tutte le sue molteplici forme di espressione?

In generale, a far paura dell’idea di concept album è l’idea che esso costringa l’ascoltatore a un’attenzione differente, sminuendo l’atto dell’approccio a un lavoro musicale come svago e forzando le energie verso una potenziale “comprensione del messaggio”. Che poi è, nei fatti, una delle più ricorrenti critiche al linguaggio di Caparezza.

Ma che falsità, in fin dei conti. Non c’è lavoro organico a carattere narrativo – chiamiamolo così – di Michele Salvemini che non sia stato pensato su un doppio, se non triplo livello di fruizione, con una corposa manciata di canzoni che vivono in maniera pienamente autonoma, come singoli e non, e che nel contempo creano relazioni con le cornici e gli intermezzi conficcati nel tragitto della storia. O addirittura con altri lavori: nell’ultima strofa di Jodellavitanonhocapitounccazzo, cioè l’ultima canzone di Verità supposte, Caparezza profetizza la sua morte (“Mamma quanti dischi venderanno se mi spengo”); il decesso si attuerà concretamente in Habemus capa, l’album successivo in cui l’autore si personifica, da cadavere, in una serie di figure-chiave che gli servono come gancio per altrettanti sguardi alla società di oggi, salvo risorgere in nuove vesti alla fine dell’album. È fondato il dubbio che Capa, già da Verità supposte, stesse preconizzando il suo lavoro successivo, quasi come il finale aperto di una stagione di una serie tv ben congegnata.

Ci sono tracce di Caparezza che hanno in qualche modo bisogno della cornice per rivelare il senso del quadro. Ma in molti, molti altri casi, le sue canzoni vivono in completa autonomia, al punto che provare a isolare degli eventi per osservarne le modalità espressive mi sembra un gioco ampiamente fattibile. Semmai, è impossibile pensare di raccontare tutto Caparezza per estratti, perché a tutt’oggi che il suo canzoniere vanta oltre 150 brani, senza contare le molte partecipazioni a canzoni altrui, Capa si staglia come una figura di complessità incredibile: dove egocentrismo esasperato, attivismo non sanato e barocchismo stilistico fermentano costantemente, producendo un percorso artistico irrequieto e solitario, irriproducibile da un’altra voce che non sia la sua e in grado di stare in equilibrio esclusivamente all’interno del suo mondo poetico.

Anche lui, talvolta, mette in guardia gli esegeti: “Non esiste dunque una traccia che possa rappresentare l’intero disco, perché non esiste un quadro che possa rappresentare l’intera galleria. In pratica questo album, più che ascoltato, va visitato” dice presentando Museica. Salvo, poi, ritrovarci con la medesima situazione, quella in cui anche fini lettori musicali di fronte a ogni uscita del nostro, sempre al di sopra dei 70 minuti, si scoraggiano, perdono l’interesse a sforzarsi a leggere “dentro le canzoni” e annaspano dietro tiritere vecchie come il laser disc: “troppa carne al fuoco”, “Caparezza si perde dietro le sue ambizioni”, “qualche riempitivo in meno avrebbe giovato” eccetera eccetera. La retorica del troppo zucchero nella pasta frolla: che palle.

Dal Duemila in avanti Caparezza è un trionfo dell’eccezione ostica da integrare, come conferma la consueta diatriba innescata ad ogni sua uscita: tra chi lo venera “unico poeta” del rap italiano, in virtù della sua astinenza dai temi portanti del linguaggio hip hop, e tra chi lo bolla come “moralizzatore”, colpevole di guardare a un mondo che si presume estinto – di solito, per esprimere lo sdegno, si usa l’espressione “da centro sociale” – troppo schierato, troppo ossessionato dal voler veicolare un messaggio, troppo sulle sue (“Caparezza musicalmente è un genio, e usa la forma del rap, però per essere credibile deve fare comunque una cosa un po’ da maestro, un po’ che ti insegna a vivere”, Gue Pequeno, in una notevole intervista di Federico Sardo a Vice, 2017).

Giochi di mani giochi da villani, scaramucce necessarie a smuovere un mondo altrimenti prono all’adesione acritica alle scuderie del mercato, argomenti talmente cronicizzati da essere già diventati parodia: tutto ciò, qui, mi interessa poco.

Con il suo costante andirivieni tra personaggio e persona, le centinaia di riferimenti a linguaggi compenetrati tra loro, la specificità dello stile musicale quasi monolitica, Caparezza tuttora è un fenomeno unico e solitario nella canzone italiana dal Duemila in poi. Un alfiere quasi eremitico di una visione di musica come ambizione, un difensore strenuo dell’idea che tutto ciò che si può tentare, vada tentato, senza porsi troppi limiti di convenienza, contro ogni stitichezza. Un suo successo radiofonico, Non me lo posso permettere, rovista esattamente dentro questa coercizione all’inazione, al “No” come scorciatoia rapida, alla mancanza di risorse come pretesto per una contrazione esistenziale del sogno personale: è una canzone corrosiva che fa il paio, sul tema, con Guerra e pace di Fabri Fibra, che termina con un ululato disperato: “Non sono sazio, ho fame”.

E allora per restare alle regole di Unadimille, ho provato a costruire un’escursione guidata – per dirla in modo più avventuriero, una “spedizione” – lungo una manciata di canzoni del nostro. Alcune canzoni sono entrate in questo ideale “catalogo” delle 1000 canzoni raccontate dal Duemila in poi, altre le ho accomunate per similitudine nella visione. La completezza, per definizione, è innaturale. Qui provo a fare il gioco delle camere con vista, la caccia grossa ai molti Caparezza che mi si sono parati davanti in questi anni. Eccoli.

1) Bart senza età: Vengo dalla Luna

2) Cinema di Germi: Felici ma trimoni

3) Briganti e cartoline: Vieni a ballare in Puglia

4) Viaggiatore e solitario: tre visioni sull’intimo Caparezza