Tieniti la Terra uomo
Vengo dalla Luna di Caparezza, da Verità supposte, 2003

Immedesimazione e personificazione sono meccanismi ricorrenti, per non dire sistematici, in Caparezza.
Da un lato questi alter ego gli servono per parlare anche di sé, perché per quanto le sue canzoni siano largamente in prima persona, raramente sono naturalmente autobiografiche.
Su un altro fronte, i personaggi ai quali dà ossigeno servono a dare voce a un punto di vista “altro”, a fornire cioè elementi di valutazione che si basano su una provvisoria e deliberata sospensione del proprio contesto di riferimento.
Il disegno di questi caratteri è ampiamente mutuato dalle arti figurative in generale: il cinema, i fumetti, persino l’arte pittorica, che diventerà addirittura una regola del gioco in Museica, l’album del 2014 in cui ogni canzone trae ispirazione da un quadro. Più che inventare processi, Capa traduce iconografie anche piuttosto generiche, o comunque condivise, adattandole al proprio linguaggio. Il risultato è un ibrido che lo rende irripetibile, un macro-fumetto in carne ed ossa che attinge ai linguaggi più consolidati ma che preserva un sostrato unico, la sua identità oltre la fonte di ispirazione, anche sul piano visivo ed acustico, coinvolgendo la voce, il crine, l’atteggiamento, persino la postura.

Vengo dalla luna è basata su uno degli archetipi più frequenti dell’immaginario sci-fi, se non il suo classico: l’alieno venuto da un altro pianeta che costringe, con la sua presenza, a ribaltare il punto di vista sulla Terra, mostrandone paure, contraddizioni e ipocrisie. Capa lo sviscera attingendo direttamente a una delle sue letture sotterranee più frequenti: la paura del diverso.
Qui è utile ricordare che il suo linguaggio non ammette l’induzione e la deduzione suggerita: Caparezza affronta la materia in modo sempre centrale, in un certo senso sbattendo sul muso dell’ascoltatore la sua riflessione civilista. È un prendere o lasciare, e chi prende ci si abitua e si fa la mano: per un sasso scagliato nello stagno Capa preferisce focalizzarsi sulla mano (o il pugno) che l’ha gettato, piuttosto che guardare la propagazione delle onde sulla superficie attendendo che chi possa cogliere colga.
Altrove (e con il passare del tempo) Capa svilupperà la capacità di offrire letture stratificate, più immediate e insieme cariche anche di significati più oscuri. Vengo dalla luna invece sta dalla parte opposta: bruciante, dichiarativa e oppositiva, è una canzone manifesto sul razzismo che non ammette seconde chance.
Rigorosamente atterrato non per desiderio ma per fatalità, l’alieno rinfaccia al terrestre l’ipocrisia della sua religiosità pagana (il santo attaccato al cruscotto), il machismo sbandierato come affermazione di potere, vanificato con irriverenza da una facile cornificazione (“non è colpa mia / se la tua tipa di cognome fa Pompilio come Numa”), una generale limitatezza del pensiero che gli impedisce il calarsi nei panni della difficoltà dell’altro (“La rotta ho perso / Che vuoi che ti dica / Tu sei nato qui / Perché qui ti ha partorito una fica”).
Se questi punti deboli sembrano appartenere a un ritratto di ipocrita pienamente italico, altrove Caparezza colloca la questione all’interno di un dialogo strettamente geografico, e ancora più simbolico: la luna da cui proviene l’alieno sembra il rigurgito di quella conquistata sotto lo stupore del globo nel 1969 proprio da quegli americani di cui ora si rimpiange l’illusione iniziale, il mito tradito della frontiera – nel 2003 George W Bush governa da due anni. Il richiamo è in uno dei passaggi più nostalgici del pur crudo testo:
Ho nostalgia della mia luna leggera
Ricordo una sera
Le stelle d’una bandiera ma
Era
Una speranza
Era
Una frontiera
Era
La primavera di una nuova era
Era
Facile bollare tutto questo come “antibushismo” o “antileghismo” da posse – seppure nella forma di un nu-metal particolarmente in linea con i suoni del tempo, dai Linkin Park ai Sum 41. Caparezza, in fondo, non ha mai fatto nulla per evitare di prestare il fianco a chi proprio gli contesta il suo prendere posizione politica, forse anche perché uno degli ultimi fieramente schierati del post Duemila, noncurante di quanto tutto ciò gli possa costare, e gli sia costato, in termini di marketing – e però, dopo quasi vent’anni, che noia rinfacciare a Caparezza proprio la sua vis politica, come se fosse una colpa da espiare, nei tempi della disaffezione civica come standard imprescindibile (“Io faccio politica pure quando respiro / Mica scrivo musica giocando a Guitar Hero”, Abiura di me).
Eppure l’alieno di Vengo sulla luna è un simbolo apolitico, né nero né bianco, una mina vagante che non porta né jella né fortuna, ma semplicemente con la sua presenza costringe a un ripensamento dei propri canoni, un capovolgimento di prospettive irreversibile: io, sì, ti porto sulla Luna. Un grimaldello universale. Per questa ragione il suo linguaggio è necessariamente minatorio, greve, carico di scurrilità che Capa altrimenti non lesina con tanta scioltezza. Perché in Vengo dalla luna gli equilibrismi retorici del molfettese lasciano spazio all’essenza stessa della forza del brano, che è forza d’urto fisica, aggressiva e senza mediazioni. È la struttura sonora di un’invasione degli ultracorpi, urtante come l’assalto al supermarket di Zombi di George Romero, come l’arrivo malsano di una versione mutante della folla de Il quarto stato di Pellizza da Volpedo, in una processione sgangherata e proteiforme, del tutto inesorabile.

Il lettore che generalmente apprezza l’elaborazione lessicale e metrica di Caparezza ma diffida del suo spirito civico troppo dichiarativo lo contesti pure, sapendo che ha in ogni caso torto: Caparezza scrive e pubblica Vengo dalla luna nel 2003, e con il passare degli anni la canzone gonfia la sua aura di attualità, quasi prevedendo in anticipo la cronicizzazione di certe frasi, il loro entrare di petto nella retorica quotidiana legata allo straniero. È iper banale dirlo, ma è un dato di fatto: Vengo dalla Luna pare scritta oggi, 2017.
Ce l’hai con me
Perché ti fotto il lavoro
Perché ti fotto la macchina
O ti fotto la tipa sotto la luna
Il 2003 non è il ancora tempo di normalizzazione dei discorsi sull’islamizzazione dei valori italiani, di Cpt e critica al presunto ‘“estremismo umanitario” delle Ong. Per comporre il suo quadro al veleno sulla xenofobia italiana/americana Capa attinge tanto ai rantoli leghisti quanto alle illusorie costruzioni di senso della Seconda Repubblica, principali artefici di questa capacità di attrazione del nostro territorio sugli “alieni”. Lo si comprende in particolare nel bridge, che Capa delega il microfono al canto di Diego Perrone, la sua spalla vocale storica, ancora al suo fianco. Su una struttura ritmica dimezzata, in cui i toni aggressivi sono temporaneamente sospesi, Perrone intona una sorta di lamento.
Non è stato facile per me
Trovarmi qui
Ospite inatteso
Peso indesiderato arreso
Complici satelliti che
Riflettono un benessere artificiale
Luna sotto la quale parlare d’amore
Prima ancora che i fasti plastificati del berlusconismo, da pugliese qui Capa rievoca, senza dirlo, le migliaia di antenne paraboliche in Albania orientate a captare i segnali catodici tricolore, il “benessere artificiale” costruito in laboratorio per rintontire gli italiani ma che hanno avuto, come effetto collaterale, proprio quello di trasformarci in una Terra promessa inesistente – un messaggio ormai decisamente meglio veicolato negli anni Dieci, quanto l’Italia diventerà solo una terra di passaggio per altri lidi ben più promettenti.
Questo passaggio è il preludio necessario alla chiusura del brano, cantata all’unisono dalle voci in campo, con toni epici e corali. È qui che il discorso si amplia e l’alieno in qualche modo rivela l’obiettivo finale del suo j’accuse: la confezionata pseudo tranquillità dell’uomo occidentale, imposta e autopropinata attraverso e grazie alle costruzioni mediatiche, dietro alla quale si è compiuto il sacrificio della ragione, con l’effetto di un intontimento pericoloso, un irrigidimento del cuore. E le parole sono fendenti dritti, un “fai pure mentre noi facciamo”, minaccia motivata e disvelamento crudele del nulla.
Scaldati in casa
Davanti al tuo televisore
La verità
Della tua mentalità
È che la fiction sia meglio
Della vita reale
Qui invece è imprevedibile
Qui non è frutto
Di qualcosa già scritto
Su un libro
Che hai già letto tutto
Per questo ominide esangue, piccolo piccolo e in fondo così schiavo, non rimane che una sopravvivenza stentata, un conservare la posizione del benessere finché il tempo consentirà di farlo. Perché se è concreto che la Terra, prima o poi, dovrà essere migrata, allora sarà chi simbolicamente proviene da Luna ad avere le maggiori possibilità di riscatto dall’estinzione. Chi conosce l’imprevedibile e guarda la realtà per quel che è, non mediata. Vengo dalla luna, alla fine, è un monito dritto come una lancia, uno di quei moniti talmente carichi di energia e profetici nella previsione da risultare spaventosamente attuale, anche a 15 anni dalla sua pubblicazione, e anche per questo diventato un must dei live, un brano di chiusura da urlare a squarciagola e in cui annegare il dissenso man mano che ci si sente sempre più minoranza esanime.
Giocando con gli archetipi, Caparezza ne ha creato un altro, tutto suo, un modo di costruire partendo da immagini condivise e strattonandole con sicurezza per arrivare a uno scuotimento dell’animo a cui è difficile sottrarsi. Un meccanismo ripreso ed espanso, che ha un suo esito-modello proprio in Vengo dalla luna: un graphic novel senza eroi ma un sacco di figurine cieche che non vedono l’apocalisse in corso, mentre ombre scure si aggirano tra loro con frammenti di verità in mano, visibili solo da chi vuole vedere.