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Senti che bel vento

Un senso di Vasco Rossi, da Buoni o cattivi, 2004

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Si può obiettare al Vasco Rossi degli anni Duemila di aver arrotondato i toni corrosivi che hanno permeato e caratterizzato i suoi primi vent’anni di scrittura. È un’obiezione parzialmente corretta: canzoni come Basta poco (2007) o La fine del millennio (1999, poi pubblicata nel 2002), in realtà “spingono” sul raschio alla società, e di molto. Al massimo, quel che Vasco ha iniziato a limare è la provocazione, ma in qualche modo è stato naturale che accadesse: tanto la canzone di Vasco è un atto di comunicazione diretta tra l’uomo-artista che guarda il mondo e le relazioni nel suo evolversi, sempre alla luce del suo vissuto, tanto l’ingresso nell’età adulta non poteva che consegnarci un modo di fare canzoni più tenue, più spesso malinconico, mai domo o appagato, ma al contempo più lucido.

E poi, Vasco è un’opera oltre le sue canzoni, che testimonia al suo pubblico un’idea di autonomia solo per il fatto stesso di essere arrivato fin lì, sempre insieme a loro. E allora i lavori più rilevanti del Vasco Rossi post 2000, più che gli inediti incisi, comunque una sessantina, sono i suoi magniloquenti concerti, poche date costruite sempre più attorno all’idea del mega-raduno, del pellegrinaggio: Stupido Hotel Live (2001), Vasco@San Siro (2003), Buoni o cattivi Tour (2004), Vasco Live 2007 e 2008, le edizioni del Live Kom del 2011, 2013, 2014 e 2015. Fino al macroscopico Modena Park 2017, un concerto che fin dal suo concept contiene l’idea dell’una tantum, del calvario per ottenere la grazia, un giubileo attorno a sua santità del rock italiano che sta lì, con la sua figura più che con la sua scaletta, in fondo sempre simile a se stessa sebbene mai uguale, a dire che in fondo tutto è possibile, io ci sono e resisto, credeteci anche voi. E avremo la grazia, vedremo l’alba (chiara).

Questo percorso verso la maturità – santità si può far avviare da Canzoni per me, 1998, l’album in cui Vasco viene “certificato Maestro” (sempre sui generis) da quei critici e pensatori che fino a dieci anni prima lo annichilivano (gli vale persino il Premio Tenco), e il primo in cui Vasco sembra alludere all’età sopravanzata come discriminante. “Quanti anni hai / stasera / sai che non lo so / bambina / forse ne ho soltanto qualcuno… qualcuno / … più di te / ma è la curiosità / che non so più cos’è”, svela in Quanti anni hai, un brano illuminante.

Da allora, sparsi tra i suoi album “maturi”, che generalmente tendono a infiammare meno del passato, ci sono però dei punti fermi, delle canzoni-pivot che assumono un valore altamente significativo, proprio alla luce di questo percorso (una è la già citata La fine del millennio, un’altra è la recente E adesso che tocca a me, funerea e testamentaria, amarissima). Poi c’è Un senso, simbolicamente posta a chiusura dell’album del 2004 dal simbolico titolo Buoni o cattivi.

Un senso è probabilmente la summa, la sintesi estrema, la più rappresentativa di questa fase. Anche perché sarebbe stata impensabile negli anni Novanta, e figuriamoci negli Ottanta.

A un livello immediato, appartiene al filone delle classiche ballate rock di Vasco, quelle costruite quasi interamente sul pianoforte ma che, per forza, ad un certo punto convergeranno su uno stacco di batteria che aprirà il fiato a un assolo chitarristico, in pienissima epica arena-rock. Come erano Albachiara, Ogni volta, Sally (un genere parallelo è la ballata rock a base chitarristica, vedi Una canzone per te o Gli angeli, ma il canzoniere di Vasco è denso di variazioni sul tema, che a volte funzionano anche su nuclei tematici, come ad esempio accade con Dillo alla luna richiamata un decennio dopo da L’una per te).

Sono forme-canzone che Vasco ha cesellato nei decenni, testandole in varie forme. Nel 2003 non sono più “necessarie” al suo repertorio. Anche in virtù di questo Un senso è un regalo. E forse anche per questo è stata adottata come l’ultimo dei suoi grandi inni, un bis obbligato, prima dei “classici”.

Certo, il regalo è anche di Gaetano Curreri, che a Un senso ha riservato una delle sue musiche più enfatiche e insieme semplici in assoluto: un’armonia su giro di Sol maggiore giocata su registri alti che all’interno della stessa strofa “modula”, cioè viene traslata, di un tono e mezzo, per poi tornare nel ritornello alla tonalità originale. È un espediente che consente di creare movimento armonico in una strofa, come vedremo dopo, costruita sulle ripetizioni. Lo si ritrova, ad esempio, in Merdman, un pezzo piuttosto sottovalutato di Lucio Dalla (e il riferimento potrebbe non avere casualità, visto come è “dalliana” l’aria che si respira in certi voli di Un senso).

Però Un senso è diventata un pezzo-simbolo anche perché al suo interno Vasco ha spinto alle massime conseguenze il suo caratteristico “periodo poetico”, un modo di costruire i versi lontano dai “fatti narrati” in terza persona (ci sono eccezioni, chiaro, come Sally), appoggiato su un’identificazione dei ruoli immediata e non mediata, tu/te io/me, il “noi” da una parte e il “loro” dall’altra. Versi stringati e insieme evocativi, per iscritto densi di puntini di sospensione, domande, punti esclamativi, affini all’idea di frammenti sparsi su un diario e lasciati liberi di interagire senza troppa strutturazione, ma che sotterraneamente rivelano forme quasi classiche, conteggi sillabici precisi, parole che sembrano scaraventate lì d’impeto ma che in realtà tradiscono una acuta conoscenza della “risonanza”.

Ebbene in Un senso Vasco si concede di costruire un intero testo su un meccanismo che si potrebbe dire combinatorio: le due strofe, rispettivamente di otto e quattro versi, più il finale, sono in realtà sempre lo stesso periodo, e a mutare è solo il complemento di vantaggio. Il ritornello, invece, è sempre uguale. In sostanza: un testo matrice, con un solo elemento funzionale a cambiare (!) il senso.

Vasco_Rossi_Un_senso_Schema

I termini che si sostituiscono, poi, tutti femminili, appartengono a un’area semantica precisa, ampiamente generica, accoppiati in rime esatte (condizione/situazione) o variate (storia/voglia).

È una diretta applicazione del principio della modifica minima, che sposta il senso, lo amplia e lo trasla.

Vasco che fa virtuosismi di composizione? Può anche darsi, ma è poco credibile. Nel senso che lo sfoggio di tecnica non appartiene al suo modo di scrivere (anche se esistono canzoni di Vasco che sono esercizi su canzoni altrui, come Canzone generale, da Stupido Hotel, curiosa rivisitazione di La canzone popolare di Ivano Fossati).

Fuori dalla questione metrica, è più verosimile credere che Vasco Rossi abbia scelto la forma lirica più idonea a conseguire un obiettivo emotivo: l’universalità. Perché Un senso, nel suo incedere quasi appesantito, riproduce il vagabondaggio dello smarrimento, il disorientamento lucido di chi non può smettere la propria ricerca di una ragione, pur nella coscienza che questa storia, questa situazione, eccetera eccetera, “un senso non ce l’ha”. Se c’è un principio che trasuda la maturità più di ogni altra cosa, è qui dentro: fedele al suo umanesimo ateo, ormai Vasco conosce le meccaniche paradossali e illogiche con cui la vita si esplica, eppure come uomo non può smettere la sua personal quest.

Ciò a cui trovare un senso è un luna park di doppi sensi e significati aperti. Il primo termine di cui cerca il senso è “questa sera”: e, sempre giocando, si può supporre che la canzone sia nata in notturna, in uno di quei momenti intimi di riflessione, che ben giustificherebbe l’accoppiamento col termine “vita”.

La storia – e chissà che non ci sia traccia di un riferimento degregoriano, un cardine dello scrivere di Vasco, seppur rivelato più tardi – può valere come relazione sentimentale, Storia con la S maiuscola o persino come gergalismo a sé, “questa storia” come “questa roba”, massa inestricabile. Voglia è un lemma che richiama la fisicità, un tratto costante irrinunciabile anche per il Vasco maturo, ma in un gioco di contorcimenti retorici, la “voglia” è anche quella di trovare lo stesso senso: cerco una ragione e vorrei trovare una ragione per cui la cerco.

Retrocover del Cd "Buoni o cattivi", che contiene "Un senso". Vagabondaggi, ricerca, anonimato, figurine: cosa succede ancora in città?
Retrocover del Cd "Buoni o cattivi", che contiene "Un senso". Vagabondaggi, ricerca, anonimato, figurine: cosa succede ancora in città?

Vagabondaggi interiori a parte, il fulcro del Vasco-pensiero è nel ritornello:

Sai che cosa penso

Che se non ha un senso

Domani arriverà

Domani arriverà lo stesso

Senti che bel vento

Non basta mai il tempo

Domani un altro giorno arriverà…

Con smaccata semplicità, Vasco certifica il suo non credere all’esistenza di un senso; invece che trarne amarezza, tuttavia, spinge il vettore della canzone sul “domani”, ossia la possibilità, il passo successivo, un ottimismo maturo, di chi non si introflette anche quando è a pezzi. “Senti che bel vento”: l’elemento naturale irrompe a soffiare sulle fiamme mai spente e sulle acredini che non si riesce a far evaporare, ed è una folata di incoraggiamento “puro”. Che si chiude con uno dei più classici tòpos cinematografici: “Domani un altro giorno arriverà”, che riunisce Via col vento e Ornella Vanoni, li sintetizza e li proietta verso un futuro assoluto, una tensione ultima verso la resistenza, quella stessa resistenza che probabilmente, a 65 anni, porta ancora il Vasco “reduce di vita” su un palco davanti a 220 mila persone.

Se c’è dunque una ragione perché Un senso è divenuto un inno – forse l’inno – del Vasco maturo, è di essere una canzone – manifesto della purezza, autentica e sincera (come la regola Vasco impone) ma insieme in grado di essere sempre, dalla prima parola alla chiusura cantata, universale. Ci si può far riecheggiare tanto la sofferenza concreta, il dramma, il sentirsi costantemente in scacco della vita, il subirne i colpi, lo zoppicare, quanto almeno ci si può leggere un rispecchiamento di ogni dilemma esistenziale. Tanto i termini sono quelli, arbitrariamente astratti e generici, e quindi straordinariamente onnicomprensivi: l’amore, il desiderio, la guerra, la depressione, la fatica, l’assurdo, la mancanza, la morte. “Tante cose”, le chiama Vasco alla fine, concedendosi una funambolica sìnesi, dove il plurale del soggetto (“tante cose”) diventa singolare nel suo verbo (“non ce l’ha”).

Artwork di "Sono innocente", 2014.
Artwork di "Sono innocente", 2014.

Collocata nel momento più intimo del pezzo, prima della sfuriata rock, e sottolineata da una specie di mellotron che rifà teneramente il verso a Strawberry Fields Forever, questa figura retorica svetta come il punto più alto dell’intera canzone (ma direi, dell’intero Vasco post Duemila): un tocco ironico, sottolineato da una specie di “bah” dopo “l’ha”, una variazione inaspettata che sta lì quasi come un errore voluto, e che fa sorridere, perché in fondo è Vasco e l’empatia col suo smisurato pubblico si misura anche da questo, la rottura della convenzione, il colloquialismo che crea comunanza. Parte il na-na-na, e si riparte: “Senti che bel vento”, come un mantra, un’invocazione.

Rimuovendo ogni immagine concreta, riferendosi solo a figure tematiche astratte, Vasco è riuscito a scrivere una canzone pienamente adottabile da chiunque si trovi in una condizione di smarrimento esistenziale ma confidi comunque nel “domani” come ipotesi di alleggerimento, più che di risoluzione. In questo senso, Un senso è un archetipo sulla speranza in forma di preghiera laica, forse la più astratta e totale mai scritta in Italia, Paese in decrescita demografica e recessione economica, dal Duemila in poi. Un Paese sperduto, che riesce a ritrovarsi ancora in rare occasioni-specchio, come dentro uno stadio. Di questo pubblico pagante e non, Vasco è megafono: tutto vale, e tutto è dentro Un senso, ci siamo tutti, perciò piangete pure e alzate l’urlo, “domani arriverà lo stesso”.

ps.: Ho omesso volutamente, ma posso farlo qui, di nominare Non ti muovere, il film diretto da Sergio Castellitto e scritto da Margaret Mazzantini (tratto dal suo libro omonimo), in cui Un senso è ampiamente utilizzata in chiave narrativa (non, cioè, come canzone sui titoli di coda). Intanto perché nella colonna sonora del film, alla fine, il brano non c’è entrato (che sia per una mera questione di diritti o una scelta artistica, non lo trovo un fatto da poco), ma soprattutto per un’altra ragione: Non ti muovere vira il senso della canzone adattandolo ai suoi scopi di drammaturgia, mettendola in contatto diretto con il tormento del personaggio protagonista, un medico al capezzale di un figlio che ha avuto un grave incidente, e insieme con il suo desiderio (o fantasticheria) di una relazione possibile con una donna (Italia, interpretata da Penelope Cruz), dal passato e dal presente difficile. Per una canzone di preziosa universalità, il ricollocamento in questa dimensione mi pare una “riduzione”, uno di quei casi in cui l’immagine mozza invece che amplificare. Resta un uso legittimo, che la storia del cinema ha tante volte trasformato in una nuova creazione, di sconvolgente bellezza, ma che in questo caso mi sento di confinare qui: il gusto è arbitrario, certo, ma a far diventare un’estasi enfatica un tranello retorico ci vuole un niente. Pertanto, un post scriptum va bene.

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