Fa troppa luce la parola sempre
È stato un attimo di Mario Venuti, da Magneti, 2006

Fa un certo effetto osservarlo, ma la carriera di Mario Venuti conta più di trent’anni. Tre decenni tutto sommato irrequieti, a sperimentare diverse forme di microclima, per citarlo. Negli Ottanta, l’incarnazione di una inaspettata wave catanese con i Denovo: un’esperienza della cui influenza beneficeranno in tanti (dai Timoria ai Bluvertigo e a seguire), con un credito non sempre riconosciuto. Da solista, l’equilibrismo in cerca di una via personale tra tropicalismo e canzone mediterranea. L’incrocio di strade con Carmen Consoli, da Amore di plastica, che co-firma, a Mai come ieri, che dona una fama ampia alla sua sensualità malinconica.
Fino a Crudele, 2004, intelligente forma di shock raffinato al tedio sentimentale sanremese, che gli vale attenzione critica e, a sorpresa, seguito popolare vasto.
È passato da poco il Duemila, la canzone italiana latita in idee e ci sono artisti che hanno cominciato a flirtare con suggestioni jazzistiche e echi latini. Dopo tanto ricercare, Venuti ha finalmente magnetizzato l’attenzione generale, frutto di un imperscrutabile lavoro di composizione a specchio con Giuseppe Rinaldi in arte Kaballà (“ha il compito di sistemare i miei impeti e chiarire i miei concetti”).
In lui si respirano l’indolenza melodica di un Sergio Endrigo e l’irriverenza posata di un Ivan Graziani, l’eremitismo e l’erotismo, Umberto Bindi e gli Style Council, il madrigale e il dialetto, l’alchimia ed Elvis Costello, tutto levigato da un vento sabbioso di Sud, imprescindibile presenza, in ogni nota.
Ma allo stesso tempo Venuti impone un’immagine peculiare, rara per l’Italia: un po’ un jazz dandy senza l’uggiosità fumosa del club chiuso verso l’esterno, un po’ un macho gentile, dalla fisicità prorompente ma senza i sudori e le pose della rigida iconografia della rockstar male.

In pochi anni Mario Venuti diventa molto richiesto come penna e come voce aggiunta dal meglio pop del momento (Antonella Ruggiero, Raf, Patrizia Laquidara, La Crus, Syria). In generale, l’autore sacrifica volentieri boati effimeri di notorietà, se l’obiettivo è cesellare la scrittura musicale della pop song perfetta. Questa ricerca è tanto vicina alla “vocazione” che la sua canzone suona sempre fluida: riesce a invadere l’aere radiofonico senza cedere alla banalità, e insieme a suonare “colta” senza arrischiarsi nell’ostico. Nel momento in cui scrivo ha inciso oltre 100 canzoni, non contando la discografia dei Denovo e le molte collaborazioni: questo equilibrio miracoloso lo si riscontra nella quasi totalità dei casi.
Con l’album Magneti, nel 2006, è evidente il tentativo di elaborare una sintesi perfetta e naturale di tutti questi climi. Nell’album convergono i suoi grandi filoni tematici: c’è la carnalità vissuta da spirito libero, un tema talmente problematico nel pop italico che vale la pena esplorarlo in un’altra di queste analisi; c’è l’esplorazione della solitudine come atteggiamento virtuoso, privata di psicopatologismi d’accatto; c’è anche la sua ironia distaccata sulla società, osservata come da un faro, sorprendentemente premonitrice: il ritornello di Addio alle armi invoca il “tutti contro tutti, nessuna verità”, nel momento in cui in pochi – certamente pochissimi autori musicali – possono supporre quali mali causerà la degenerazione social-patica del nostro tempo presente.
Poi c’è È stato un attimo, che forse appartiene al fiume principale di questo canzoniere, e che, per la sua essenzialità, sembra essere messa in apertura appositamente, come un prologo che detta il metodo. Venuti ha inciso altre canzoni che si impennano molto di più nel pathos o nella suggestione, ma È stato un attimo – un brano secco, asciutto, a suo modo lineare – ha molte ragioni per essere considerato una prova significativa, quasi un modello del comporre alla Venuti.
L’apertura è diretta, con la voce che inizia a cantare nel silenzio, senza introduzioni.
C’è stato un momento in cui
Mi è sembrato capirci qualcosa
Vederci più chiaro in mezzo alle trame che intreccia la vita
Ma è stato un attimo
Soltanto un attimo.
Le strofe sono la rievocazione lievemente malinconica di un momento di lucidità durato, appunto, soltanto un attimo. Dove Vasco ha da poco cantato l’ossessione alla ricerca di “un senso a questa vita”, cosciente che “questa vita un senso non ce l’ha”, Mario Venuti opera un ribaltamento meno scontato. Al centro c’è proprio l’attimo che ha rivelato il senso, l’epifania, il contatto raggiunto con un “perfetto disegno divino / perfetto equilibrio tra tutte le forze / del bene e del male”. È uno stato che non si presenta in modo fortuito, ma è chiaramente il frutto di un percorso autonomo all’interno della propria identità.
A dirlo è proprio il percorso umano che Venuti traspone nelle sue canzoni, in prima persona. Non è un eremita, anche se da questa posizione può studiare le possibilità della solitudine. Non è nemmeno un’asceta, sebbene dai suoi versi traspaiano le meraviglie pirotecniche generate dallo scontro tra carne e spirito. Mario Venuti canta (da sempre) un uomo nel pieno possesso delle sue facoltà, che raccoglie stimoli e suggestioni senza però mai rimettervi la propria volontà.
Questo uomo sceglie di agire nella coscienza dell’errore, dando eco a scelte di vita che la “pubblica morale” (sua definizione da Recidivo), dietro il pragmatismo di facciata, fa ancora fatica a concepire. Guidato da una sorta di “anticonformismo gentile”, Venuti si differenzia così da Franco Battiato, un’altra ispirazione irrinunciabile, in qualche modo anche imponente. Per dirla con un paradosso, pare quasi più semplice identificarsi con i conflitti del maestro catanese, la sua tensione costante verso una dimensione ultra, perché ci consente di rispecchiare un anelito, osservando i nostri limiti nel raggiungerlo.
Venuti, invece, vuole essere un giocatore imprevedibile: sa come leggere il codice dell’universo, persino invocarlo (“Mare prezioso / blu profondo silenzioso / solleva il velo / fammi conoscere il tuo mistero”, Ultramarino), ma non intende rinunciare al suo libero arbitrio, al diletto che prova nell’assistere alla lotta “tra sesso e castità”, alla sua attrazione sensuale per i fallen angels (“È la sensazione di una nuova libertà / È pensare che il corpo guida l’anima”, la recente Caduto dalle stelle).
Perciò – colpo di scena – è proprio la rivelazione del tutto che, invece che elevare lo spirito, determina la decisione dell’io a restare “tra le ombre”, a mantenere uno sguardo terreno. Quell’attimo di ipercoscienza altro non ha fatto che mostrare la caducità delle emozioni, la loro abilità di evaporare con il passare del tempo. Svelata la verità, l’uomo vi preferisce il qui ed ora, perché “sempre” è una parola talmente abbagliante da spaventare, lasciare accecati, e dunque è meglio vedere i contorni al buio, piuttosto che vedere la brutalità del nulla.
È tutto chiaro improvvisamente
Dopo un po’ non rimane niente
Allora è meglio che tornino le ombre
Fa troppa luce la parola sempre
È evidente come il tempo sia un protagonista della scrittura di Venuti/Kaballà. Ridotto alla sua più minima manifestazione, talmente breve da essere incalcolabile, è un motore di vita, iper presente, come personificazione del piacere puro, connaturato al momento stesso: “Un attimo di gioia terrena / come un fiume in piena / mi sorprende nel mezzo della corsa / scioglie la morsa per un po’”. Oppure, l’attimo contiene il fascino della rivelazione attraverso il caso, la deviazione improvvisa: del resto, se “non può essere mai come ieri”, allora “se ti ho perso è stato solo per un attimo”.
Esiste un possibile livello di lettura del brano alla luce di una relazione recentemente conclusa. Anche se al rapporto a due È stato un attimo non allude mai, è difficile non pensare a quel “sempre” alla luce di una visione eterna, quasi matrimoniale. In questa chiave, pare ancora più solida l’immagine di Venuti come “anticonformista sobrio”: dove la pubblica morale impone una visione tendente all’infinito della relazione, l’io illustra le ragioni per cui tutto, “improvvisamente”, è svanito, svelando la sua inconsistenza. Lontano dall’eroismo tragi-melodico all’italiana, Venuti ribalta ancora il punto di vista, esplorando una centratura individualista rischiosa, se la si guarda con superficialità, perché taglia fuori il melenso, ma anche più vicina all’autentico, al quotidiano di chi rinuncia a un’illusione per non perdere l’aderenza con ciò che il sé reputa il bene proprio.
Va anche detto che Magneti è un disco in cui agisce in modo nemmeno troppo sotterraneo il senso di disfatta per la fine di un amore, la disintegrazione delle aspettative, sempre nell’ottica dell’io che sceglie di vivere il dolore per evolversi (“E arriva un bastimento carico di rabbia e pentimento / hai voglia a dire “non è vero, è tutto passeggero” / magneti indivisibili e perfetti / perdono i loro effetti”, Magneti).
Che sia esattamente una riflessione esistenziale o amorosa, lo ritengo secondario: quel che rimane di È stato un attimo è, soprattutto, la straordinaria mimesi musicale, esplorata nella scelta di un brusco, sorprendente passaggio dalla strofa al ritornello.

La strofa ha un tono pensoso e riflessivo. Sia il basso che l’armonia in minore puntano verso il basso, pienamente immersi nel consueto portfolio di jazzismi (accordi in 7maj/9, rivolti), e con qualche vocalismo vagamente arabeggiante (lo si sente in “la vera-a-a ragione”).
Giunto il ritornello sia l’armonia che il canto si impennano su un riff sincopato frenetico e incalzante, fomentato da una corale di fiati, tra gli Steely Dan e qualche uptempo acid jazz. La tonalità muta attraverso un salto decisamente insolito, passando dal domestico La- al Fa-, e qui approdata, l’armonia, non si assesta mai sull’accordo base.
In termini non tecnici, è una scelta che consente di dare al ritornello un tono “sulle spine”, perché ci si muove da e verso l’accordo principale, senza arrivarci mai. Tutto ciò accade mentre Venuti declama che “fa troppa luce la parola sempre”, con un coro che lo rincorre, dal tono perentorio, per nulla suadente, il ritmo che galoppa, sembra accelerare, le sincopi che sembrano dire: “andiamo, veloce, forza, su”. Difficile da leggersi come un puro vezzo stilistico: piuttosto, è come se Venuti stesse mettendo in musica gli effetti destabilizzanti di quella folgorazione improvvisa. Con grande, abbagliante semplicità, una semplicità rarefatta, che cela con nonchalance una sofisticazione notevole.
Quando l’essenzialità invece che comprimere, fa esplodere l’evocazione, per di più in un pezzo che dentro ha sia il tono meditativo che la frenesia, si può solo fare un inchino di elogio. Ma più ci si addentra nella discografia di Mario Venuti meno ci si meraviglia: l’ambizione alla sintesi aurea è una costante.
Per questa ragione, più che considerarlo il suo miglior brano, per quanto senso possa avere stilare una graduatoria, credo che È stato un attimo sia soprattutto un’efficace rappresentazione del suo approccio al mestiere di compositore.
Soprattutto, è una delle più lampanti tracce di quel grande fiume tematico che si può disegnare tuttora nei suoi trent’anni di carriera: quello in cui le retoriche si sgretolano lasciando l’individuo solo con in mano la concretezza del suo presente, libero da razionalismi frenanti (quegli stessi veti interiori che, nel video della canzone, sono identificati da un simbolico camice da scienziato, di cui Venuti alla fine si disfa correndo in una foresta).
In barba agli schemi precotti, Mario Venuti canta la difesa della dignità delle proprie scelte – esistenziali, amorose – contro quello che si pretenderebbe sia, formalmente, “la dignità”. In altre parole, la libertà di essere sulu.
Prossima canzone: 867 – Augh di Mara Redeghieri
Se vuoi rimanere aggiornato su tutte le analisi pubblicate da Unadimille, iscriviti alla Newsletter.