E lo so che è disgustoso, disonesto e criminale
Secondo me di Brunori Sas, da A casa tutto bene, 2017

Un percorso insidioso di sfida alle certezze granitiche. Quelle esterne, come quelle interiori. Questo mi sembra, a un ascolto prolungato, A casa tutto bene di Brunori Sas, un tortuoso svelare la contraddizione, in cui molte canzoni sembrano perseguire l’obiettivo di non risolvere né pacificare, semmai alzare il livello della valutazione, renderlo più complesso. Il costume da torero, Canzone contro la paura, soprattutto Secondo me.
Per immergermi dentro questo torbido farò una digressione. Partendo da alcune domande che i detrattori di Brunori Sas pongono spesso, man mano che il suo credito presso il pubblico diventa sempre più trasversale.
Quanto c’è di autentico e quanto di scontato in certe sue considerazioni su cui è molto difficile essere in disaccordo? Dov’è l’ovvio e dove il naturale? In quale punto esatto un’affermazione smette di stare dentro l’esercizio poetico e sconfina nell’ispido terreno del ruffianesimo?
Passare dal via: Piazza San Giovanni
Quando parlo di “ruffianesimo” mi riferisco a quel guado in cui, a cavallo tra anni Novanta e Duemila, sono finiti a sbracciarsi illustri cantautori e nuovi nomi della scena alternativa, passati con un’agilità sconcertante dal piano della riflessione politica stratificata allo slogan di forza. Un atteggiamento costato caro, che ha fatto prima di tutto vittime nella stessa comunità dei cantautori di dichiarata matrice politica, improvvisamente percepiti vetusti e legnosi; e poi nel pubblico, che ha velocemente messo una X su un’intera estetica scambiandola come arte di sinistra: una sostituzione devastante a livello di comunità, ancora non pacificata.
È una pace di cui qualcuno mai sentirà bisogno?
Suppongo di sì, visti i ripetuti e semi-falliti tentativi, negli anni Dieci, di “svecchiare” e rimescolare il parco artisti del Concertone del Primo Maggio, divenuto quasi un simbolo negativo agli occhi delle nuove generazioni, tanto tra gli indie waver quanto tra i trapper, paradossalmente generazioni estetiche che cantano la precarietà ma vomitano su qualsiasi simbolo della generazione che li ha portati fin qui. Il Concertone, appunto, ha rischiato il collasso in una parabola della disfatta che va dalla censura a Fabri Fibra a partecipare all’edizione 2013 (uno strappo mai sanato, dagli effetti ben più violenti di quel che si immagina anche oltre l’universo rap) fino alla devastante Complesso del Primo Maggio di Elio e Le Storie Tese, una (grande) canzone meritevole di aver improvvisamente consentito a tutti di perculare qualcosa che tutti sentivano di voler perculare, ma che nessuno si prendeva la briga di fare.
Questa digressione in Piazza San Giovanni è per dire in quale contesto insidioso Brunori arrivi a proporre la sua formula, profondamente cantautorale nel senso più archetipico del termine, in un tempo in cui non manca l’avversione per questo archetipo. Brunori è personaggio ideale per un rinnovamento del Concerto del Primo Maggio, e difatti nel 2017 è tra gli headliner. Ma, per l’appunto, lo è in virtù di un cocente fraintendimento: quello che lo vuole come il cantore di una generazione precaria e disillusa, ancora aggrappata a bricioli di ideali di positività e inclusività sociale, seppur impossibilitata a credere più nelle favole cubane in isole lontane, a rischio di passare per ebeti. Cosa che Brunori potrebbe anche essere, ma non è. Decisamente non lo è. Il primo emblema è l’ormai già celebre distico da Il costume di torero.
Meglio cinico o meglio stupido
Parto da Il costume di torero e dal suo ormai celebre distico chiave.
Non sarò mai abbastanza cinico da smettere di credere che il mondo possa essere migliore di com’è
Ma non sarò neanche tanto stupido da credere che il mondo possa crescere se non parto da me
Disillusione e pragmatismo, più che ridicolo idealismo. Maschera e ludus (passami il mantello nero) per evitare di passare da ingenui salvatore dell’universo. Con un certo coraggio, perché riesce comunque a rigettare certe esplorazioni del rifiuto che, negli anni Dieci, sono piuttosto semplici da realizzare e insieme molto redditizie, al netto di un reale sforzo poetico. In Il costume da torero, invece (o infatti?) Brunori pone una lettura ben più stratificata, decisamente contemporanea. Non a caso, viene intercettato da un Matteo Renzi già in fase post governativa e in cerca di certificazioni di contemporaneità presso gli iscritti PD in crisi da scissione. In assemblea, dopo aver tessuto le lodi di Brunori – “Bruno chi?” si sarà chiesto qualcuno, tra i veteroDS che identificano il sociale ancora con il militante – Renzi sgancia proprio il distico di Il costume da torero per identificare il suo (presunto) approccio di idealismo-quanto-basta per sognare ancora senza sembrare idioti. Ed è altrettanto emblematico che Brunori, con prontezza, rigetti l’accreditamento: grazie, ma non è mia intenzione affiliarmi a nessuno.
Non è solo una mossa di – chiamiamola – convenienza politica. È che la poetica di Brunori, mai come in A casa tutto bene, è costruita proprio intorno allo sfaldamento delle dichiarazioni di appartenenza, all’esperienza della scoperta del relativismo delle posizioni e al conseguente senso di sgomento. Al dissidio interiore. Qui è, credo, il punto essenziale: chi isola – Matteo Renzi o il più blasonato critico musicale italiano, poco importa – un distico in questa nube di contraddittori lasciati liberi di farsi domande e rispondersi, sta esattamente attuando quello svilimento del pensiero che Brunori tenta di cogliere in fallo indossando, appunto, la maschera di torero e giocando a vivere sulla propria pelle l’unicità del posizionamento, per trasformarla nel suo negativo fotografico e dimostrarne l’inesistenza.
Dunque sì al pensiero morale di Brunori, finché esso contenga anche il suo opposto, contro cui collassa e si polverizza, svelando la validità simultanea delle posizioni più disparate, una nube di status che si fa fatica a non condividere, finché li ha detti qualcun altro. Mi urtano certi puristi dell’underground che demonizzano un presunto buonismo di Dario Brunori e, purtroppo, sottovalutano la sensibilità del suo pubblico più assiduo: non vedono che è proprio il loro svilito integralismo uno degli oggetti più feroci del gioco al collasso tra opposti alla base del suo cantare.
Buonista è chi fa finta che la paura non esista, che sia un ostacolo che si può razionalmente sormontare. Brunori, in A casa tutto bene, sta altrove.
Canzoni luride o canzoni stupide
La dimensione dello scontro interiore e del polverizzarsi delle vedute non solo è evidente, posta al centro com’è, ma è soprattutto esposta. Canzone contro la paura è una canzone sullo scegliere quale canzone cantare, una meta-canzone si potrebbe dire. L’io e il tu sono polivalenti e in rifrazione: c’è è un Brunori che canta solo per sé canzoni poco irriverenti, buone per andarci la domenica al mare, la cui posizione è opposta a un Brunori che vuole canzoni come sberle in faccia per costringerti a pensare, che ti amo ancora anche se è triste, anche se è dura. L’antisociale e il sociale. L’obbligo di densità tematica e la leggerezza del pop. Non vince nessuno, perché il punto non quello:
Ma non ti sembra un miracolo
che in mezzo a questo dolore
e tutto questo rumore
a volte basta una canzone
anche una stupida canzone
solo una stupida canzone
a ricordarti chi sei
Il contrasto tra le intenzioni si sfalda di fronte allo scopo primario: la canzone, quale sia la sua natura, è uno strumento di riconnessione con la propria identità, le esigenze, i bisogni, le riflessioni e gli urli primordiali (le cinquemilavoci che diventano una sola). Brunori non svela alcun meccanismo: lo mette in mostra. Nella rifrazione, l’ascoltatore può confondersi all’interno con il profilo per il quale sente più affinità e la sua immagine specchiata, il proprio desiderio di leggerezza, il proprio desiderio di contenuto, la possibilità di una sintesi tra entrambe, la canzone come emozione.
Anche i richiami storici sono palesi e agiscono come segni di identificazione di un immaginario condiviso: la gucciniana dicitura Canzone del titolo, la stupida canzone (che in Venditti, è anche lurida e rigorosamente d’amore), la canzone “buona da mangiare” come i funghi degregoriani di Generale, la quarta aumentata nel motivo armonico fondante, cioè il sigillo assolutamente inviolabile di Com’è profondo il mare di Dalla. Tutto è sapientemente intenzionale, eppure non abbastanza da perdere la sua autenticità: gli opposti convivono, lo hanno sempre fatto, l’adesione a una o all’altra scuola di pensiero altro non è che un’opportunità per ribaltare le proprie certezze, scoprendo sgomenti l’impossibilità di una sicurezza. In tempi di ipertrofia delle dichiarazioni di posizione personali, dentro e fuori i social, è una verità non scontata.
Stupidità o opinione
Fuori dal volendo confortante spazio della canzone come set, il punto è ripreso ed espanso in Secondo me. L’atteggiamento all’interno di cui si muove l’io cantante è, lo preciso da subito, sempre ambiguo. Il meccanismo è affine a Canzone contro la paura ma più sfumato: invece che due posizioni contrapposte ma ben delineate, la canzone si affida a un atteggiamento, applicato a cinque contesti quanti sono le strofe, eterogenei ma densi di significato.
La questione dell’atteggiamento è cruciale ed è, secondo me, l’essenza stessa del successo “contraddittorio” di Brunori. Prendiamo per esempio la prima strofa, ma vale per tutte:
Secondo me hanno ragione anche i vegani
Ci incazziamo per i cani abbandonati poi ci ingozziamo di insaccati
E in fondo dai, parliamo sempre di Salvini,
Di immigrati e clandestini
Ma in un campo rifugiati
A noi non ci hanno visto mai.
Brunori entra a gamba tesa in due questioni di assoluta attualità nel 2017, la cui attinenza reciproca sembrerebbe pretestuosa, visto che mettere insieme la polemica sull’etica alimentare con l’oltranzismo sulla questione migratoria potrebbe apparire come un’accozzaglia di riferimenti.
Ma il punto è proprio quello: la moltiplicazione delle opinioni ci costringe ad appiattire il valore dei temi, tutto diventa post, la sua capacità attrattiva è nella quantificazione immediata delle interazioni su una timeline. Sollevato un tema piuttosto che un altro, abbiamo l’urgenza di esprimerci, tendenzialmente sminuendo la posizione dominante ed assecondando il suo opposto. Una reazione impulsiva determinata dalla nostra percezione di esistere come differenza dal flusso. Distinguerci.
Dentro questo ondeggiare gelatinoso (in una vita liquida, come si intitola un altro brano di A casa tutto bene, chiaramente ispirato a Bauman, comun denominatore di questa nuova coscienza), le posizioni sembrano tutte condivisibili. Almeno in funzione dell’espressione del sé collegato a esse e, di conseguenza, dello svilimento della posizione opposta. Non esistiamo più in quanto idea: tutto è diventato condivisibile e altrettanto opinabile.
Brunori ci ricorda, in un verso che trasuda grasso e livore, che “ci incazziamo per i cani abbandonati poi ci ingozziamo di insaccati”. È curioso che usi l’esempio dei cani, lo stesso a cui fa riferimento Levante in Non me ne frega niente, brano dallo spirito vicino a Secondo me, ma corrosivo in modo più palese: “Je suis Paris madame / ma in piazza scendo solo per il cane”. Sebbene è evidente che, all’alba del 2017 il nostro rapporto contraddittorio con i social network sia diventato un tema inevitabile per qualsiasi espressione che passi dalla canzone, con decine di esempi che travalicano i generi (dal Fibra di Fenomeno alle icone alt Gazebo Penguins di Soffrire non è utile).
Brunori mette il dito in questa contraddizione scientemente, condividendo la posizione espressa e insieme dileggiando l’atto di esprimere quella posizione in contrapposizione a quella dominante. Vale anche per i versi su Matteo Salvini e i rifugiati, con un po’ di veleno in più: colpisce la banalità dell’affermazione, il presupporre che sia quantomeno necessario aver visitato di persona un campo profughi per poter sferrare un attacco alle affermazioni di Salvini, ma insieme non esita a girare un coltello nella piaga della polverizzazione della sinistra. Quanto è vero, in fondo, che la sinistra italiana ha compiuto una delle sue maggiori débâcle negli anni Dieci proprio sulla gestione della politica migratoria?
L’ambiguità è ripresa in una strofa successiva, quando Brunori canta il grande luogo comune dell’imborghesimento, l’aver perso il desiderio di “sporcarci un po’ i vestiti”. A nome di chi sta cantando, in questo momento, se non di una collettività – per carità, dai confini flessibili e puntinati – che è l’ipotetico popolo del centro sinistra che fu? È una strofa, forse l’unica, in cui l’ambiguità lascia il posto a coordinate più precise, dove senza essere evocate esplicitamente è difficile non scorgere ancora i “Kantautori” (con la K) sui palchi delle Feste dell’Unità:
Se canti il popolo sarai anche un cantautore
Sarai anche un cantastorie
Ma ogni volta ai tuoi concerti
Non c’è neanche un muratore
Però il senso complessivo va oltre il contenuto dell’invettiva. Che infatti, più che un j’accuse, mi sembra ancora una volta un interpellare un doppio di sé, uno specchiarsi in quell’artista vestito in panni che si indossano e dismettono all’occorrenza (e in base alla convenienza). È come se Brunori, amaramente, utilizzasse l’ambiguità del processo espressivo della canzone per fare prima di tutto un’amara riflessione sul sé artista: uno che ha cantato effettivamente di muratori e lavoratori precari, migranti (almeno italiani) e affaticati della vita contemporanea, ma che realizza quanto sia esposto al rischio – almeno nel momento in cui scrive – dal diventare un cantore di partito, per quanto antica possa apparire questa definizione.
Eppure, a un livello più alto, il gioco dell’ambiguità offre anche qui una lettura macroscopica più interessante: che quella del muratore sia una tirata accusatoria tipica di chi vuole contestarlo, che presuppone (come nel caso dei migranti) che un artista dovrebbe cantare solo quello di cui ha esperienza diretta. Una polemica antichissima, che risale ai tempi dei Canzonieri politici dei primi anni Settanta, ma che – con un po’ di fantasia nel ragionamento – non è troppo distante da quel che scatena polemiche tutt’oggi nel mondo del rap, dove, in estrema sintesi, si può cantare dei bassifondi solo se li si è vissuti. Ecco perché Secondo me, nelle mani buone, potrebbe offrire un’ottima parafrasi trap.
Ambiguo, non stupido
È facile immaginare un applauso di adesione. Ma è proprio l’applauso l’indice del fraintendimento: nel momento in cui si condividono queste affermazioni, si diventa parte del gioco della canzone, un atteggiamento, più che un personaggio. Si può prendere in giro chi rifiuta di entrare in un centro commerciale per aderenza alla lotta al capitale più rigida, o insieme restare basiti dalla povertà di ideali di chi predica il sostegno al piccolo commerciante ma poi passa il sabato pomeriggio a riempirsi un carrello: sono tutte posizioni legittime, dentro il secondo me, ma in ogni caso, siamo tutti diventati ormai parte di questa opinion rush, una sorta di corsa al giudizio moralizzatore o anti-moralizzatore che ha fatto a pezzi la sospensione del giudizio come strumento di accesso al pluralismo, alla molteplicità della realtà.
Non è che Brunori abbia cominciato adesso a cantare l’ipocrisia dietro le prese di posizione. Fin dal suo esordio, Vol. 1, il sarcasmo è sempre stato indice di questo suo personale disagio nei confronti di chi sbandiera personalismi come presunzioni di verità. Prima ho citato un Canzoniere delle meraviglie: in questo uso del paradosso, effettivamente, la sua forma di vicinanza più clamorosa è con Rino Gaetano, anche se su Brunori e sui debiti nei confronti dei cantautori “tradizionali” io ho una visione ben precisa. Cioè che non esista un “debito”, che Brunori sia solo un passaggio combinatorio nella storia di una precisa forma di “canzone d’autore” italiana, la più tradizionale, dove più che debitori ci sono contribuenti a una serie di stilemi, aspettative, temi. Ma questo si presta bene a un’altra riflessione, che non posso esplorare qui.
Tornando al percorso di Brunori, la differenza tra canzoni come L’imprenditore o Animal colletti e l’approccio adottato in A casa tutto bene mi sembra essere nell’aver scelto di non chiudere più le riflessioni in narrazioni compiute, in piccole parabole morali che – suppongo – sono anche una delle ragioni principali per cui i detrattori di Brunori si sentono spesso “ingabbiati”. L’evoluzione di Dario è stata liberarsi dalle maschere e far cantare gli assunti, anche quando si scontravano tra loro. Anzi, soprattutto quando c’è uno scontro in atto, Brunori ha messo da parte i Paolo i Luca e le Rosa eccetera eccetera e ha messo in prima linea i vari Dario esistenti. Intesi, più che come identità contrapposte, come la stessa persona esplorata nella sua impossibilità di un pensiero unico, identitario. Una crisi. Ottenuta attraverso una pratica ben calibrata: il porre domande a cui non è possibile trovare risposte uniche, il far coesistere risposte tutte altrettanto valide, cantando il nostro ruminare infinito tra i poli più convenienti.

Questo vale anche per le questioni più personali, come difendere l’idea che dopo 18 anni non serva rivolgersi a un prete o a un messo comunale per certificare una relazione amorosa, oppure dichiararsi spaventati da “questo imperativo di rimuovere il dolore” del mondo Occidentale, dal fatto che “prendiamo troppe medicine”, come Brunori esprime nei versi più personali della canzone, quelli in cui si approccia al tema di che cosa è naturale e cosa non lo è. Condivisibili o esecrabili, un filo controversi magari sì, ma questi versi non sono in antitesi rispetto alle posizioni ambigue espresse nelle altre strofe, ma di fatto concretizzano la sua distanza da una visione della vita “formalizzata”, a trazione anteriore per forza, da un percorso per come siamo stati formati a pensare che sia. Sono uno sprone a intravedere il troppo dentro questo troppo, e insieme un contraltare privato. Perché, poste le possibilità multiple del Secondo me, da qualche parte il cantautore dovrà anche emergere.
Forse sono tutte congetture. Ma chi non ha voluto cogliere le plurime sfumature di posizionamento in Brunori, limitandosi a leggere il suo debito nei confronti delle icone cantautorali nonché il suo generico approcciarsi a una materia “sociale” come motivo sufficiente per chiuderlo in una casella, beh, secondo me, si è perso quasi tutto. Ed è in clamoroso ritardo, perché Brunori, nel 2017 di A casa tutto bene, ha già fatto un percorso nella canzone imprescindibile per il contesto italiano. Rimmel, Francesco De Gregori lo incise a 23 anni, e fu il suo terzo album, e fu tanto ricercato dal pubblico quanto tenuto a distanza di sicurezza da un fetta consistente di kritika musicale italiana, anche prestigiosa. Che cosa aggiungere?
Qualcuno era un -ismo
Alla fine, secondo me, Secondo me è la canzone più rappresentativa di questo atto di nebulizzazione della narrazione nel cosmo del tutto e del contrario di tutto, delle idee nude, degli -ismi ritratti nel loro divenire altri -ismi. È una canzone dal potenziale infinito, talmente elementare sul piano armonico e archetipica nella struttura, che potrebbe diventare un recital, essere ‘aggiornata’ tra cinque, dieci, vent’anni, magari in un’era in cui invece che un appiattimento delle opinioni, saremo in grado di pensare esclusivamente in un modo unico. Come fece Gaber, con Qualcuno era comunista. Non a caso.