Cerco l’insegna del bar
Hotel Riviera di Jolly Mare feat. Lucia Manca, da Mechanics, 2016

Entrare nell’universo Jolly Mare significa trovarsi a rimbalzare, come in un flipper impazzito, tra suite sintetiche dai toni così spettacolarmente cangianti da sembrare progressive nell’approccio: “lifting”, cioè azioni di potenziamento sonoro non invasive su classici pop italiani (Vasco Rossi, Pino Daniele), buoni per l’inserimento in una setlist da club (o bar); remix più classici; strumentali interamente suonati dal vivo; e naturalmente brani pensati per il movimento, seppur siano percorsi a ostacoli, irti come sono di contrattempi e contrappunti. Canzoni, poche a dire il vero, almeno nella loro forma più standard: in lingua inglese, perché Jolly Mare è un progetto che nasce e si sviluppa con la piena consapevolezza del suo respiro internazionale.
Però è pure vero che in Mechanics, l’album di esordio di Fabrizio Martina, anagrafe di Jolly Mare, qualche canzone-canzone c’è, e una ha persino un testo in italiano, assolutamente non secondario, anzi. Si chiama Hotel Riviera e ha le radici in un preciso periodo del modo di fare canzone in Italia, quella transizione tra la fine dei Settanta e l’inizio degli Ottanta che ha rigenerato non soltanto i nostri suoni, improvvisamente imbevuti in una cisterna anglosassone, ma soprattutto le strutture, i rapporti tra le strofe e i ritornelli, i pesi stessi dei versi e le frasi.
La struttura di Hotel Riviera, rispetto ad altri brani di Mechanics che hanno bisogno di durate consistenti per dare spazio allo sviluppo delle mille idee possibili, è “chiusa”, incapsulata in un canovaccio piuttosto standard: strofa-ritornello-strofa-ritornello-variazione su strofa-fine. Ci sono divagazioni strumentali, ma mai troppo pretestuose, coerenti con la linea armonica generale. Compaiono, in particolare, prima della sezione finale, quando Jolly Mare svuota a un certo punto il brano di armonie per lasciare spazio a un bridge di suoni percussivi e sintetici. I due ritornelli non sono identici, ma si sviluppano su una variazione lirica della stessa melodia. Interessante è la chiusura, affidata a una terza linea melodica che è costruita sull’armonia della strofa, ma seguendo una metrica più fitta, incalzante.
È un’architettura che potrei definire accessibile seppur non banale, dove ogni elemento ricalca uno precedente ma non è mai uguale a se stesso, un pattern che si prende il tempo dovuto, senza fretta, per esprimersi a pieno. E soprattutto: è la base di un film, perché Hotel Riviera è un cortometraggio, con un preciso sviluppo drammatico, e una certa sofisticazione delle scelte.
Lei (o lui) ha raggiunto l’altro/a negli androni di questo Hotel Riviera. L’ha fatto probabilmente con poca convinzione, e appena ha potuto ha letto gli atteggiamenti di lui come l’ennesima conferma che la relazione è finita.
Non ti sopporto perché
sei sempre lo stesso
Il tempo passato in questa villeggiatura diventa una prigione: lei evade con la mente, visualizzando la fuga.
chiudo gli occhi
e intanto fuori
sento correre i vagoni
Negli spazi si ingrandisce il senso di incombenza di questa fine, al punto che tra un ritornello e l’altro i medesimi elementi diventano “troppo” (da “grandi stanze” a “troppe stanze”, da “quanto spazio all’Hotel Riviera a “corro fuori dall’Hotel Riviera”).
A orientarsi e creare un’immedesimazione è la voce di Lucia Manca, che canta ben scandendo le parole e soppesandole. Il suo è un tono languido, piuttosto accentuato, ma nella produzione di Jolly Mare si trasforma: la voce appare sdoppiata, come se ci fosse un essere robotico, un androgino quasi, a fare eco a ogni parola. E il risultato, incredibilmente, è che la voce diventa no gender, c’è un uomo dentro la donna e c’è una donna dentro (il disco di) un uomo. Che sia un modo in cui il nostro cantautore elettronico stia cercando di emergere nel suo privato attraverso di lei è qualcosa di più di una supposizione: in un’intervista Fabrizio Martina spiega che i versi del brano sono riflessioni frammentarie che derivano da alcune sue esperienze personali.
La fuga del/la protagonista non è concreta, ma è un’ipotesi, della quale vengono vagliati i vantaggi e le modalità operative. Lo chiarisce il blocco finale, denso di visualizzazioni: i dettagli concreti ora odorano di decadenza (la polvere sul comodino, la cenere nel lavandino), c’è un tono noir che si affaccia (il coltello, la forbice), e non è da escludersi che questo alluda alla presenza di una dimensione erotica tra dominazione e sottomissione (i “giochi perversi”, “facciamo quello che dici”).
Lei/lui elabora già una versione definitiva del perché è comunque tornata all’Hotel, in sostanza del perché ha voluto fare questo tentativo (“avevo tempo da perdere / e mi sembrava più facile”), e già considera i vantaggi del chiudere (“avrò più tempo per leggere”), lasciando sotterraneamente intendere che – ed è un finale, come dicevo, aperto – potrebbe non chiudere mai, perché il brano sfuma, finisce lì, in negativo. L’immagine finale è la ricerca di un bar sulla moquette bagnata: che ciò accada dall’immobile interno della camera d’albergo, come fosse una fantasticheria, o dalla hall dell’hotel, non è dato saperlo. Rimane un sottile fastidio, un senso, ancora, di decadente, di riviera romagnola in autunno, di edifici anni Settanta non ristrutturati, di specchi, vasi con i fiori finti, locali chiusi.
In sostanza, mi pare che Hotel Riviera sia la cronistoria impressionista di uno strascico, un tentativo di salvare un sentimento in balia di un’ossessione che, in partenza, è già perdente. Non c’è alcuna elevazione: il ritmo incalzante non fa nulla per celare una evidente disillusione. Il colore cinematografico, in qualche modo, serve a creare una distanza dalla materia: Jolly Mare sublima le tracce di un momento personale decisamente in minore costruendo una sceneggiatura, dando un contorno bidimensionale ai personaggi, riempiendo l’aere di odori e sensazioni tattili (la moquette, la polvere, il taglio).
Questo “schermo” su cui fa correre immagini da film affidate a un’altra voce e a un corpo differente, a volerlo vedere, agisce come disvelamento della vulnerabilità dell’autore Jolly Mare: il producer rivolge le sue attenzioni verso un oggetto esterno, lo materializza e vi si proietta dentro, celandosi alle sue spalle. A riascoltarla bene, la voce di Manca sembra “imbrigliata”, come se cantasse legata, posseduta da una presenza da cui cerca di divincolarsi.
Perché celarsi?
La scrittura è frammentata, ma non senza sintassi. Ci si muove ora tra una cronaca dei fatti realizzata per piccoli flash narrativi, come brevi sequenze di raccordo nel montaggio di un film (“vado giù, prendo un caffè”), ora in una serie di suggestioni affidate agli oggetti, agli spazi, all’architettura del set della vicenda, il nostro hotel
Grandi stanze
tende a fiori
fari verdi
gli ascensori.
Tra queste immagini in forma di lampo compare, in modo soffuso, una presa di coscienza personale, ma sono gli elementi concreti, fisici – l’arredo, la location – a innescarla. La metrica dà grande enfasi alle pause e al silenzio tra un verso e l’altro, con una briciola di suspense: “Le calze che – pausa – pausa – mi pungono – pausa – pausa”.
Il sentimento di disillusione agisce, soprattutto, nella memoria personale del luogo. L’Hotel Riviera è l’hotel adriatico per eccellenza. Fa nulla che in Salento (Jolly Mare è di Novoli, vicino Lecce, 25km dal mare) ci siano un Grand Hotel Riviera a Santa Maria al Bagno e uno a Torre Pali, entrambi sullo Ionio. Fa nulla perché l’Hotel Riviera, nel suo nome, porta un carico di stagioni gloriose in decadimento, di località che paiono nel loro autunno esistenziale anche in alta stagione. È nell’intervista già citata che lo stesso Jolly Mare colloca l’ispirazione sulla Riviera romagnola.
L’Hotel Riviera è l’hotel sul mare per eccellenza. È la visualizzazione di una grande passione italiana al tramonto, talmente vincolata alla sua storia sfrenata di divertimento per tutti, che, appunto, nell’immaginario collettivo è rimasta “la riviera”, un riferimento mitico, oltre la concretezza della grande crisi di prenotazioni che la riviera ha conosciuto a partire dal Duemila in poi. In un modo simile a come, diciamo, la protagonista della canzone infierisce sul corpo morto della sua storia, nemmeno sperandoci più.
Nel post-Duemila una strabordante quantità di turisti ha scoperto che bastava fare qualche centinaio di chilometri in più per approdare in un fantomatico mito di incontaminazione: la Puglia, il Salento e la formidabile macchina della comunicazione messa in piedi dall’era vendoliana (smascherata con sagacia dal Caparezza di Vieni a ballare in Puglia). A processo avvenuto, il salentino Jolly Mare risale invece con lo sguardo verso nord, lungo l’orografia adriatica, ipotizziamo tra l’Abruzzo e le Marche, dove il tempo è andato avanti più lentamente, e certe località marine conservano le stesse insegne degli anni Settanta.
Ecco perché il paesaggio sonoro di Hotel Riviera, di cui fino ad ora non ho parlato ma che brilla e riluce per nitidezza espressiva, è un funky a tempo medio in cui pare di muoversi ricercando a tentoni una briciola d’aria in un contesto di afa. Un sudore non sensuale, aggravato dalla pesantezza di quelle giornate estive che si consumano da sé, senza un entusiasmo a guidarne il bioritmo. C’è un sano stridore metallico tra i beat che reggono i versi, che a me ricorda quello stato acustico alterato dalla presenza costante di acqua nelle orecchie. Un sottile fastidio, dietro l’apparente freschezza del suono. In ogni caso, è una costruzione musicale di densità impressionante, una stratificazione capace di richiamare alla mente un’intera urbanistica sentimentale.
Se dovessi scegliere un motivo solo per cui Jolly Mare è unico, nel panorama italiano, sceglierei certamente questa sua capacità di ricostruire la complessità degli spazi attraverso il suono. Tutto Mechanics mi sembra un album “adriatico”, composto al ritmo della strabiliante tratta ferroviaria da Ancona al Molise, costruita a pelo sull’acqua, a distanza ravvicinata dai bagnanti. Un percorso fatto, possibilmente, durante la mezza stagione, a giugno o meglio ancora ad ottobre, con la malinconia dei pochi bagnanti rimasti a sfidare il clima già incerto spazzata via dal ritmo pulsante del treno che corre. Come il video di Star Guitar dei Chemical Brothers, insomma, anzi meglio, più o meno all’altezza di Giulianova.
Certo, tutto Jolly Mare è anche una magniloquente rielaborazione di paesaggi sonori già esistiti, da Los Angeles a Cattolica, da Lunedì cinema a La-da-dee-la-da-da. Ma io sento che a leggerlo in termini di “citazione”, a parlare di rinascita dell’italo-disco, lo si riduce brutalmente, almeno quanto lo si semplifica cercandone una definizione (producer, dj, turntablist o – voilà – “cantautore elettronico”). Jolly Mare prende uno stilema piccolo piccolo, in fondo, e ci ricama sopra una struttura complessa, che splende di luce propria. Se proprio ha un senso riportare, ogni volta, il passato da laureato in ingegneria con PhD in dinamica delle vibrazioni, è per questa propensione smodata e naturale a utilizzare gli elementi base per costruire cose complesse. Non certo per suscitare la sorpresa in chi legge o ascolta: che ingenuità smisurata meravigliarsi che proprio chi ha una formazione tecnico-scientifica sia così votato alla manipolazione della musica!
Piuttosto, se riferimenti ci sono – e chiaramente, ci sono, se uno guarda anche l’artwork, che Fabrizio Martina cura personalmente, come i video musicali, che gira di sua mano – allora sono proprio in un certo approccio alla materia cantata, di cui ho scritto in partenza. Tra la fine dei Settanta e i primissimi anni degli Ottanta il pop italiano si contamina ad ampio raggio con le suggestioni anglosassoni. Si ritorna al privato alzando lo sguardo su un mondo che fa sembrare ben più minuscola l’Italia, si compensa il lutto per il fallimento del grande ideale con un abbondante dose di individualismo, pilloloni di self-consciousness, pragmatismo disilluso.
Non pensare sia tardi
Il domani è come un taxi che aspetta
Non lo guidi ma decidi tu puoi fargli fretta
È Loredana Bertè, Movie, anno 1981. Ancora: “Mentre la chitarra suona ancora un po’ / Esci per la strada prendi il metrò / Così imparerai che rinchiusi in una stanza / Non si vince mai”. L’album è Made in Italy ed è quello registrato a New York mentre lei deambula tra locali notturni e frequenta personaggi gravitanti intorno alla Factory di Andy Warhol. Canta dell’irriducibile istinto di sopravvivenza attuato attraverso la fuga, una fuga fascinosamente visiva, come in un film, nella coscienza che tutto ciò che oggi può renderti felice può risultare illusorio, può diventare una gabbia. Una fuga che può essere immaginaria, come in un film, appunto, mentre noi rimaniamo dove siamo. E il ritmo che dà il tempo di questa sequenza è un altro funky a tempo medio, dal respiro metropolitano, una brezza che agisce come un’essenza vaporizzata all’interno di Hotel Riviera.
Se volessi scegliere un riferimento essenziale per individuare un possibile senso nascosto di Hotel Riviera, dietro la mera suggestione sonora, scelgo questo: Loredana che parla all’Italia dalla sua fuga a New York, anno 1981. Catapultati nell’oggi, immagino Fabrizio Martina così: preparare Mechanics con cura meticolosa, con uno studio di cui nessuno può immaginare le dimensioni, e lanciarlo nel cosmo come un oggetto già proveniente da un altro fascinoso luogo del globo. In questa fase di studio, importantissima perché consentirà la creazione tangibile di tutto il suo potenziale, ogni tanto Fabrizio si guarda indietro e prende appunti. Mette per iscritto quelle sensazioni contrastanti, il lanciarsi nel mondo e i dubbi che lo frenano, il volersene andare ma il tornare comunque, pur sapendo che questa relazione è al termine, che non può dare altro. È una fantasticheria, sia chiaro, ma non sarebbe né il primo né l’ultimo a sostituire una figura femminile a un luogo.
Si visualizza in una donna/uomo, una voce che usa il trucco dell’effetto sonoro per camuffare una vulnerabilità personale. L’altro lato, l’oggetto del desiderio e della repulsione insieme, è un Hotel qualunque sull’adriatico, non più pieno e lussureggiante come un tempo, con gli arredi da rinnovare, l’odore di usato. Un luogo da cui si proviene e in cui inevitabilmente occorre tornare. Quando la resistenza si accorcia, visualizza la fuga, il taglio netto, la “moquette bagnata” e “il cielo spesso su questo letto umido”. Mentre tutti arrivano, Fabrizio è tentato, seriamente, di andare. Hotel Riviera è un taccuino emotivo, malinconico e disilluso, in questa tentazione, prima che un gesto si compia, prima di una decisione, di un lancio. “Sento correre i vagoni” dice la donna, nel film. Che cosa c’è da ballare, in fondo.