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Ho frutti da desiderare

Nel mio giardino di Cristina Donà, da Dove sei tu, 2003

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La mia sorella, la mia sposa è un giardino chiuso, una sorgente chiusa, una fonte sigillata / I tuoi germogli sono un giardino di melograni con frutti squisiti, piante di alcanna con nardo / nardo e croco, cannella e cinnamomo, con ogni specie di alberi d’incenso, mirra ed aloe, con tutti i migliori aromi”.

Questi in apertura sono alcuni dei versi più richiamati del Cantico dei Cantici (4:12-14), uno dei libri più ‘eccezionali’ dell’Antico Testamento. Frutto di interpretazioni stratificate, il Cantico di re Salomone (secondo la sua più verosimile attribuzione) è un “entrato nel canone della sacra scrittura come un canto lirico all’amore umano, all’amore terreno”.

Per molti secoli, ne sono state date letture allegoriche a più livelli – Dio e Israele, Dio e la Madonna, il rapporto mistico tra l’anima e Dio al suo livello più puro – ignorando o rifuggendo addirittura l’evidenza della sua interpretazione letterale: e cioè che sia certamente un inno all’amore tra uomo e donna, denso di fisicità e sensualità, persino erotico, in una visione comunque religiosa, in cui l’amore terreno è espressione della grandezza di Dio.

Abbagliante per la sua forza immaginifica, sconvolgente se inteso nel contesto delle Sacre Scritture, il Cantico svela – tra le sue molte peculiarità – due aspetti precisi: in primo luogo, è denso di riferimenti botanici, anche molto dettagliati; in seconda battuta, è scritto dal punto di vista della donna. Che il “diletto”, appunto, non esita a descrivere come “un giardino chiuso”, dai frutti meravigliosi.

La canzone popolare italiana del Novecento ci ha abituato a moltissime immagini vivaistico-botaniche, spesso utilizzate in richiamo di amori proibiti, carnalità a lungo desiderate, spasimi non ripagati. C’è una varietà così fitta che ci si potrebbe scrivere un volume intero: dagli “alberi infiniti” che sostituiscono le pareti della stanza tra i caruggi di Gino Paoli all’orrenda “aiuola” di Gianluca Grignani, c’è un universo fatto di frutti da cogliere, “prati verdi dove nascono speranze”, tipologie arboree di varia natura, Margherite, Viole, Vie dei Ciclamini. E ovviamente rose, con e senza spine, di ogni tipo e colore. Ci sono, come sempre in prima linea, De Andrè e Battisti. Del primo, notoriamente amante della natura, valga la forza delle immagini di “viole che sbocciavano” e di conseguenti “rose presto appassite” nella Canzone dell’amore perduto, a dar l’idea dell’intensità metaforica (per tacere del “letame da cui nascono i fior” di Via del Campo).

L’opera della coppia Mogol-Battisti, celebre per il suo afflato ecologista ante litteram, è invasa da una schiera di immagini spesso legate a un’idea di natura vivente, quasi ‘panica’, tra colline dei ciliegi, “piantine verdi da ricoprir di terra”, “ombre e fantasmi nella notte che sono alberi e cespugli ancora in fiore” e via dicendo, sebbene verso la fine della loro collaborazione la prospettiva si riduca a toni decisamente più domestici, individuando la felicità quotidiana nel “coltivare un orto sul balcone insieme a te” (Perché no). Mogol, peraltro, subodora prima di molti altri la capacità ingannevole del verde e delle sue derivazioni consumistiche, ritraendo una disinvolta e distratta Una che sorride a brutti e belli con “un giardino in testa”, simbolo di un amore mono-direzionale che ormai è “Una rosa / che non ha nessun profumo / che è di plastica oramai”.

Salvo eccezioni molto peculiari, queste derivazioni green hanno generalmente alcuni fili conduttori: un punto di vista maschile, dove l’uomo è spesso ritratto come eroe romantico in perlustrazione tra la flora-oggetto; la grazia del fiore è nondimeno associata a una sua gracilità, per non dire fragilità, inevitabilmente identificata con aloni femminili. Il processo è unilaterale: è l’uomo che entra nello spazio verde, minuscolo orto urbano o “giardino mistico” che sia, ed è la donna a essere “colta”. Del resto, è la quantità a far la differenza: che sia cantautorato di alto profilo o canzonetta becera (o viceversa), in Italia il numero di punti di vista maschili sarà sempre sproporzionato rispetto al loro equivalente femminile.

Non sarà facile trovare, ad esempio, racconti come quello di Pj Harvey, che in The Garden, appunto, ribalta il punto di vista, offrendo una soggettiva della carnalità femminile esplorata dal maschio-esploratore – qui, addirittura, ce ne sono due, in competizione – o per meglio dire, invasore:

And he was walking in the garden

And he was walking in the night

And he was singing a sad love song

And he was praying for his life

And the stars came out around him

He was thinking of his sins

And he’s looking at his song-bird

And he’s looking at his wings

There, inside the garden

Came another with his lips

Said “won’t you come and be my lover ?”

“Let me give you a little kiss”

Sono molte di queste riflessioni a far sì che Oltre il giardino di Cristina Donà sembri una sorta di ‘precedente’. Non muta, sostanzialmente, l’immagine di riferimento: il giardino, le primizie, i frutti. Cambia però la sensibilità riflessa da chi canta: quel mio del titolo, che contiene in sé, come punto di partenza imprescindibile, la proprietà spaziale del contesto, la donna nella sua interezza, l’intero uno fatto di corpo e anima.

La "pianura d'oro" che ospita l'azione scenica in "Cantico dei Cantici", compagnia Virgilio Sieni, 2016

L’oro ricorre spesso nell’immaginario sensuale del Cantico dei Cantici, indice di regalità e splendore dell’amore cantato: a lei il diletto promette “Faremo per te orecchini d’oro, con grani d’argento” (1:11); l’amato è descritto dalla sposa “Le sue mani sono anelli d’oro, incastonati di gemme di Tarsis / Il suo ventre è tutto d’avorio, tempestato di zaffiri. / Le sue gambe, colonne di alabastro, posate su basi d’oro puro” (5:14-15). Oro come ornamento, oro ibridato alla corporeità stessa, in un luogo che è regale, e perciò splendente d’oro (“Un baldacchino si è fatto il re Salomone con legno del Libano / Le sue colonne le ha fatte d’argento, d’oro la sua spalliera” (3:9-10).

Nel rito propedeutico all’ingresso dell’amato nel giardino di Donà, l’oro è l’elemento cardine, in un’accezione quasi alchemica. Una regalità multifunzionale, che prima di tutto serve a fare da guida, sottointendendo, probabilmente, che lui è cieco, o comunque sta entrando in un luogo sconosciuto, dove potrebbe soffrire la minaccia del perdersi, la difficoltà del tragitto, e magari voltarsi indietro. E allora:

Ho riempito d’oro il giardino

perché tu vedessi

chiaramente dov’è il cammino

e quanti sono i passi

L’oro è anche l’elemento con il quale Donà ridipinge il suo giardino, e quindi diventa rivestimento, paramento regale, materia luccicante che permetterà a lui di sapere “cose nuove, nuovi sogni che non ti ho detto mai”. La lettura può essere duplice: a livello esistenziale, è come se la decisione di fare entrare l’amato nel giardino sia l’indice di un’evoluzione, un salto in questa relazione che consentirà di gettare nuova luce su anfratti finora tenuti nascosti, perché più riservati nel senso letterale del termine (Donà, del resto, aprirà il giardino quando lui verrà). Potremmo ipotizzare che sia anche il seguito a una fase di ‘crisi’ (“ritroverai quel che avevi perso”), ma comunque presentata in una visione ottimistica, certamente alleggerita delle pesantezza del passato: la “goccia che non cade” e che “rimanda la mia guarigione” della splendida Goccia (1999) sembra caduta realmente, quasi come si fosse asciugata, non lasciando che spazio a un nuovo fluido.

E allora per il blocco finale, celebrazione del rito compiuto e riuscito, l’oro diventa esplicitamente cristologico, secondo l’accezione che vede Gesù definito “Lucente stella del mattino”, ma anche tramite un richiamo più elementare ai concetti di ‘stella’, ‘guida’, ‘cammino’.

Ho riempito d’oro il mattino

perché tu vedessi

la mia luce sul tuo cammino

che ti guiderà

La preparazione diventa promessa e presa d’impegno: raggiungimi nel giardino, lo aprirò e non si chiuderà. Per invogliarti, ti invito a considerare i “frutti” che ho da desiderare, in un atto di seduzione pura, sensuale ma equilibrata, quasi placida. “Seguimi / il sole arriva adesso”: siamo pronti per originare una nuova strada, fatta di luce assoluta, senza ombre.

In L’ultima giornata di sole, da Nido, Donà forniva un indizio importante sulla visione del sé ‘verde’: “ho un’anima a forma di prato / sorprendentemente fiorito”. Ma Nido era un’opera del passaggio, una fotografia della rigenerazione personale appena nascente (il nido, appunto), tenuta ancora sotto scacco dai demoni del passato. E allora la prospettiva di rinascita era accolta in modo furente, quasi ansiogeno: “non aspetto e non voglio sprecare / l’ultima giornata di sole”, perché poi “torna la pioggia a cambiare le cose”.

Nel mio giardino invece, primo brano del primo album della Donà del nuovo millennio, è perfettamente rasserenato nella sua espressione di desiderio, come se l’immaginario dell’artista fosse stato benedetto da una forma di inedito controllo del sé, che diventerà determinante da adesso in avanti. Un esercizio consapevole, che lei stessa ci svela (nella successiva Triathlon, “Tengo al minimo il battito / Controllo che il respiro non ceda”), e che sembra determinante nel consolidare l’universo poetico di Donà nel suo togliersi la maschera difensiva dei primi album e aprirsi al concetto di equilibrio. C’è da sperare che l’uomo, una volta per tutte, si armi di coraggio e colga davvero l’invito di una densità lirica simile, fusa a una costruzione melodica tanto ammaliante nelle sue sfumature. Che abbia voluta farla anche lui, questa evoluzione, mollando i ‘frutti proibiti’ e le ‘rose da cogliere’. Affidandosi alla regalità dell’oro, che giochi a fare il re.